Monastero Carmelo Sant'Anna

Carpineto Romano

Novena Natale

INTRODUZIONE

In una delle cappelle ricavate nelle vicinanze della grotta santa di Betlemme si leggono le antifone «O» scolpite con i loro inizi (O Sapienza, O Signore, O Radice di Iesse, O Chiave di Davide, O Astro che sorgi, O Re delle genti, O Emmanuele) su due colonne, che inquadrano uno spazio, dove è collocato il tabernacolo. Poiché quegli inizi di antifone richiamano i giorni più vicini al Natale, sembra che sostare in quella cappella per adorare, significhi lasciarsi avvolgere da una atmosfera perpetua di avvento liturgico.
Tuttavia il richiamo di quei testi, in quel luogo particolare, non può non essere avvertito in funzione eucaristica: Colui che si attende è già presente in mezzo agli uomini e assicura ad essi luce, liberazione e salvezza. Se le prime parole delle antifone paiono risvegliare pagine dell’Antico Testamento rendendole contemporanee, le invocazioni finali: «vieni ad insegnare…, a redimere…, a liberare…, a salvare…» proiettano questi testi sulla vita di tutti.
Quella cappella a Betlemme è l’ultimo momento dell’evoluzione a cui è stata portata la grotta nella quale era vissuto san Girolamo. Il luogo era stato scelto da lui, perché consacrato dal piissimo avvento di Cristo. Girolamo in alcune lettere ai suoi monaci e amici spiegava perché avesse scelto quel luogo per condurvi vita monastica. «Tutti i luoghi santi – scriveva il santo – sono venerabili: dove è nato Gesù, dove fu crocifisso, dove risuscitò e dove salì vittorioso al cielo… ma questo luogo è veramente venerabile! Qui è nato bambino, qui infante fu collocato in una mangiatoia, perché non vi era posto per essi nell’albergo (Lc 2, 7)». Stando laggiù, a san Girolamo pareva di udire ancora i sommessi vagiti del piccolo Uomo-Dio. Questo motivo, semplice nella sua grandezza, era sufficiente a sostenere l’ascetica e la mistica di Girolamo, che esclamava: «… se mi fosse concesso di vedere il presepio ove giacque il Signore! Ora noi, quasi per fare onore a Cristo, abbiamo tolto il presepio di terra e vi abbiamo collocato quello di argento; ma per me è più prezioso quello che è stato portato via». In altre occasioni san Girolamo diceva la sua preferenza per la povertà di Betlemme in confronto alle meraviglie di Roma: «Ecco in questo piccolo buco della terra, il creatore dei cieli è nato, qui fu avvolto in panni, qui fu visto dai pastori, qui fu manifestato dalla stessa Madre, qui fu adorato fai magi».
I due pensieri venivano a compenetrarsi: quello delle antifone, suggerite dalle prime parole di esse, incise sui pilastri, e quello di Girolamo, la cui presenza si avverte a distanza di secoli in quella grotta. Ma le antifone non sono di Girolamo, né del suo tempo. Appartengono a quel mondo della Bibbia di cui Girolamo è il principe da tutti riconosciuto. Egli, uomo della Bibbia, certamente ha conosciuto gli appellativi che negli ultimi giorni d’Avvento ritornano sulle nostre labbra.
C’è chi fa risalire la costruzione di queste antifone al secolo V: sarebbero nate in Italia, servendosi di materiale di gusto e colore giudaico. Altri le ritengono più recenti: le attribuiscono a Gregorio Magno, altri ancora le mettono più vicine a noi. Qualunque sia la loro età è certo che le antifone hanno goduto di una grande popolarità per il loro contenuto, per il modo in cui venivano eseguite, con un contorno di suoni di campane a distesa, che ne diffondevano la notizia, là dove l’eco di esse arrivava. Usi popolari contornano l’esecuzione delle antifone. Ci fu anche la crescita del numero della antifone. Indirizzate al Cristo venturo, una di esse fu rivolta alla Vergine, un’altra all’angelo Gabriele e un’altra a san Tommaso apostolo, la cui festa era celebrata il 21 dicembre.
Oggi le antifone accompagnano i giorni dal 17 al 24 dicembre. Aprono la giornata liturgica, alla Messa, e la concludono ai Vespri. Recitate due volte, accentuano il sapore dell’Avvento, nelle sue ultime giornate quando l’attesa deve farsi più attenta, e il desiderio di vedere il volto del Signore diviene più nostalgico. Brevi e fervorose come una giaculatoria, ognuna delle antifone «O» può essere la preghiera preferita per ognuno dei giorni, che preparano al Natale.

16 dicembre

Ecco verrà il Re, il Signore della terra,
che toglierà il giogo della nostra schiavitù.

Le antifone «O» che caratterizzano i giorni immediatamente precedenti il Natale portano in sé l’attesa del Messia, quale poteva essere presso gli Ebrei dell’Antico Testamento, quale deve essere presso i cristiani di tutti i tempi. L’attesa raggiunge il suo vertice nella persona di Maria. Le liturgie di tutte le chiese del mondo cattolico hanno voluto ricordare ciò, concedendo in tempo di Avvento uno spazio rilevante alla persona di Maria.
Nell’attuale liturgia romana di Avvento Maria è presente dappertutto, con una presenza discreta. Si pensi al mistero dell’Annunciazione, ricordato in tutto l’Avvento, talvolta in maniera drammatica, a porne in evidenza la determinante importanza per il piano della salvezza. Dicono i testi della liturgia, lo affermano i Padri e gli scrittori della Chiesa, da Ireneo ad Agostino, a Bernardo, a Isacco della Stella, che Maria in Avvento è la madre della speranza, e diviene la speranza della Chiesa e di ognuno che ad essa appartiene. Si può affermare che l’Avvento, da un punto di vista liturgico, è la stagione più mariana dell’anno, ancor più dello stesso mese di maggio, che la devozione popolare d’occidente ha dedicato alla Madre del Signore da tempi lontani.
C’è stato un tempo, in cui fra le antifone «O», rivolte al Messia venturo, aveva trovato posto un’antifona indirizzata alla Vergine. Il testo esprimeva, nella sua prima parte, la meraviglia del cristiano dinanzi al mistero, unico nella storia dell’umanità, della maternità verginale. Nella seconda parte, l’antifona riportava la spiegazione che la Vergine stessa dava del mistero: «O Vergine delle vergini, come potrà avvenire questo? Nessuna altra donna è mai stata simile a te, né mai lo potrà essere in futuro! – Figlie di Gerusalemme, perché vi meravigliate di me? Quello che voi vedete è un mistero divino»*.
L’antifona era nella liturgia dell’«Attesa del parto della Beata Vergine Maria» che si celebrava nella Spagna visigotica il 18 dicembre, otto giorni prima del Natale. I padri del Concilio di Toledo del 656 avevano voluto tale festa, seguita da una ottava. Erano persuasi che la dignità di questa celebrazione non dovesse essere inferiore a quella del Natale: «La festa della Madre non è niente altro che l’Incarnazione del Verbo», dicevano i padri conciliari.
La sua festa prese poi la denominazione di «Nostra Signore delle O» o «Festa dell’O» a motivo dell’inizio dell’antifona sopracitata: «O Vergine delle vergini…». Durante l’ottava, di buon mattino si celebrava una messa solenne alla quale si facevano assistere tutte le donne incinte, qualunque fosse il loro rango: primo, per venerare la divina maternità di Maria; in secondo luogo, per averne il soccorso nei travagli del parto.
La festa, vera celebrazione della vita, ebbe grande diffusione nell’impero carolingio.
A Milano, già da tempo, si celebrava la memoria di Santa Maria nella sesta ed ultima domenica di Avvento. La celebrazione dava all’ultima settimana di Avvento nel rito ambrosiano la denominazione di settimana «dell’attesa».
Maria ci apre il segreto della stagione liturgica, che è l’Avvento: per lei fu tempo privilegiato, in cui «attese e portò in grembo con ineffabile amore» il Figlio; per noi è tempo provvidenziale, di cui servirci per preparare, in attesa vigilante, l’entrata del Cristo nei nostri cuori.
Breve è il tempo: bisogna approfittare, ammonisce la liturgia, mentre disegna, in questi giorni, un itinerario cronologico verso la festa: «Ecco, stanno per compiersi tutte le cose che sono state dette dall’angelo intorno alla Vergine Maria». Ecco, dunque, il primo annuncio: il Signore sta per venire. Egli, il figlio della Vergine, toglierà il giogo della nostra schiavitù, rendendoci donne e uomini liberi. La nostra attesa si fa speranza, si fa preghiera: «Oppressi a lungo sotto il giogo del peccato, aspettiamo, Padre, la nostra redenzione: la nuova nascita del tuo unico Figlio ci liberi dalla schiavitù antica».

Possiamo pregare il Signore della pace per tutte le persone sfruttate, disagiate, oppresse.
Recitiamo il Salmo 23.

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17 dicembre

O Sapienza,
che esci dalla bocca dell’Altissimo,
ti estendi ai confini del mondo,
e tutto disponi con soavità e con forza:
vieni, insegnaci la via della saggezza.

Il primo appellativo con cui nelle ultime ferie di Avvento ci si rivolge al Verbo Figlio di Dio, è quello di Sapienza. Dal titolo si sviluppa la preghiera: «O Sapienza, che esci dalla bocca dell’Altissimo, ti estendi ai confini del mondo, e tutto disponi con soavità e con forza: vieni, e insegnaci la via della saggezza».
Nel Nuovo Testamento sapienza si identifica con Cristo, Figlio e Parola di Dio.
Gli scritti apostolici non temono di attribuire al Cristo quegli attributi che l’Antico Testamento riservava alla Sapienza.
In Paolo, il Cristo è chiamato «sapienza di Dio» (1 Cor 1, 24-30): egli stesso è sapienza e, al contempo, fa conoscere agli uomini la sapienza di Dio. E Giovanni nei suoi scritti annota chiaramente che il Figlio è la Sapienza del Padre, come è la sua Parola.
Gesù, Sapienza di Dio, promette ai suoi il dono della sapienza: «vi darò una sapienza a cui i vostri avversari non potranno controbattere» (Lc 21, 15).
Chi lo accetta nella vita ed entra in comunione con lui, gode i frutti della sapienza divina ed entra nell’intimità di Dio.
L’antifona, intessuta di testi presi dall’Antico Testamento, ricorda che la Sapienza fu presente a Dio, quando egli creava il mondo e lo ordinava. Gli è presente ora, mentre lo conserva e lo rinnova continuamente.
Uscita dalla bocca di Dio, come una Parola, la Sapienza è un soffio della potenza divina, una effusione della gloria dell’Onnipotente, uno specchio dell’attività di Dio, un riflesso della luce eterna, una immagine della sua eccellenza.
Nel corso della storia della salvezza, la Sapienza sarà inviata da Dio in mezzo ad Israele, per abitare con gli uomini, per assicurare ad essi la salvezza e dirigerne la storia facendola camminare su vie provvidenziali.
La Sapienza che tutto dispone con soavità e con forza, perché senza far violenza alla libertà arriva immancabilmente al fine stabilito, è invocata, perché venga ad insegnare agli uomini chi è Dio, chi è l’uomo, il senso della vita, il significato della storia e del destino umano.
Nella luce della Sapienza divina, l’uomo troverà la capacità di comportarsi con prudenza nella vita. Gli sarà sufficiente tenere gli occhi fissi su Colui «che è forza e Sapienza di Dio» (1Cor 1, 24).

Possiamo pregare per tutto il mondo: perchè il Signore doni la pace e la saggezza del cuore, a chi governa prima di tutto e ai popoli.
Recitiamo il Salmo 8.

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18 dicembre

O Signore, guida della casa di Israele,
che sei apparso a Mosè nel fuoco del roveto,
e sul monte Sinai gli hai dato la legge:
vieni a liberarci con braccio potente.

Poche parole, tolte dalla Bibbia e legate insieme nel giro di un’antifona, riassumono una storia antica e ne introducono una che non può non esserci. L’antifona così si esprime: «O Signore, guida della casa di Israele, che sei apparso a Mosè nel fuoco del roveto, e sul monte Sinai gli hai dato la legge: vieni a liberarci con braccio potente».
Per l’accenno fatto alla storia di Mosè e alla liberazione del popolo di Israele sembra che l’antifona voglia rendere più attuale il clima della redenzione che non quello del Natale.
Dio è apparso nel deserto a Mosè, e da lui si è fatto riconoscere nel segno del roveto ardente dell’Oreb. Dio si rivela sul monte Sinai come il grande legislatore. E come il popolo avvertiva questa presenza di Dio! Egli era in mezzo al suo popolo e abitava nella tenda del convegno, Dio era con il suo popolo pronto a sostenerlo con la sua mano e a difenderlo con il suo braccio.
A lui si rivolge la preghiera: «vieni» perché si manifesta ancora. Il segno che Dio darà della sua presenza sarà quello del Verbo fatto carne. Egli verrà a liberare il suo popolo dalla schiavitù del peccato e del maligno. Stenderà la sua mano, ma non per colpire, quanto piuttosto perché essa gli venga inchiodata sulla croce: «Per compiere la tua volontà e acquistarti un popolo santo, egli stese le braccia sulla croce…» (Preghiera Eucaristica III). Così è la liberazione che avviene nella pienezza dei tempi. Essa inizia a Betlemme e si conclude al Calvario.
Il testo su cui oggi si prega ci pone a contatto con il mistero di un Dio che non teme di intervenire nella storia degli uomini, per riunirli e per salvarli. Anche nel corso dell’Avvento abbiamo orientato le nostre preghiere secondo questa direttrice e abbiamo invocato: «Risveglia la tua potenza e vieni…». Ma avevamo la certezza che il Dio forte sarebbe venuto a liberarci non in potenza, bensì in umiltà. Questa è la sua apparizione più bella. A Natale, la voce dell’apostolo Paolo ce ne darà l’annunzio: «… si sono manifestati la bontà di Dio, Salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini…» (Tt 3, 4).
In tale maniera Dio ama manifestare la forza del suo braccio e della sua mano.

Preghiamo per quanti soffrono per malattie fisiche, psichiche o morali; per le persone che non hanno lavoro, per le famiglie in difficoltà.
Recitiamo il Salmo 84

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19 dicembre

O Radice di Iesse,
che ti innalzi come segno per i popoli:
tacciono davanti a te i re della terra,
e le nazioni ti invocano:
vieni a liberarci, non tardare.

L’immagine di una radice domina il tema dell’antifona per il 19 dicembre: «O Radice di Iesse, che ti innalzi come segno per i popoli: tacciono davanti a te i re della terra, e le nazioni ti invocano: vieni a liberarci, non tardare».
Quale è il pensiero della Chiesa quando si rivolge al Cristo venturo con tale appellativo? Forse si trova la scia alla comprensione di questo simbolo, pensando a ciò che di meraviglioso porta in sé una radice. Essa vive nascosta nel suolo della terra, è senza bellezza e non ha forme regolari. Tuttavia è la parte più essenziale per la vita e la sopravvivenza di una pianta. La radice contiene in sé la crescita della pianta: in essa c’è la vita, per mezzo della quale le piante, nella loro maggioranza, possono rinnovarsi. Se la radice si ammala o muore, la pianta non può sopravvivere.
Il simbolismo biblico della radice non prescinde da tutto ciò. Nell’antifona citata, «radice» vuol significare una generazione o discendenza. Il profeta Isaia, a cui si ispira il testo liturgico, aveva predetto: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici» (Is 11, 1). Quando questo personaggio apparirà nella famiglia di Iesse riunirà tutti gli eletti da tutte le nazioni e aprirà una strada di salvezza per tutte le nazioni.
Nell’atmosfera prenatalizia in cui il testo liturgico è usato, il germoglio è da intendersi come Cristo: egli è radicato nel popolo di Israele, è legato ad una genealogia umana, che Dio ha predestinato alla storia della salvezza, nonostante ci fossero in essa anelli di miseria e di peccato. Nell’albero genealogico del Cristo, tracciato dall’evangelista Matteo, sono di fatto presentate ragguardevoli personalità di peccatori. Ciò significa che nulla di umano è estraneo a quel nostro Dio, che si innesta nel tronco dell’umanità.
Un giorno egli diventerà «vessillo per tutti i popoli». Il testo, che si ispira ancora a Isaia, risveglia nello spirito la parola del Cristo: «Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me. Questo diceva [Gesù] per indicare di quale morte doveva morire» (Gv 12, 32). La croce è il punto vertice della storia del mondo e della vita di ogni uomo, ed è mistero che spegne la parola sulle labbra dei re, dei potenti e dei sapienti della terra («davanti a lui si chiuderanno la bocca» Is 52, 15), incapaci di capire il mistero del suo annientamento («radice in terra arida» Is 53, 2) e della sua glorificazione. Solo coloro che sono «radicati e incorporati in Cristo» (Col 2, 7), «radicati e fondati nella sua carità» (Ef 3, 17) saranno beati nel contemplare il mistero di Betlemme e del Calvario e ascoltandone le risonanze nell’intimo dello spirito.
L’antifona si chiude con un invito al Cristo: «Vieni a salvarci» e con un grido che va a unirsi all’aspettativa di cui il Cristo stesso è stato oggetto nel succedersi di intere generazioni: «Non tardare!». Il Cristo, dall’ultima pagina del libro dell’Apocalisse, non lascia mai mancare la sua risposta: «Io sono la radice della stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino».
Così egli si definisce, nell’ora in cui spunta una nuova vita, quella eterna, che fiorirà per tutti gli eletti da lui: il Bambino di Betlemme, il Crocifisso e il Risorto del Calvario.

Preghiamo oggi per i governanti: perchè non dominino sulle nazioni, ma facciano leggi giuste a favore dei popoli. Preghiamo per quanti sono affranti da debiti, disagi economici, salute cagionevole.
Recitiamo il Salmo 19.

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20 dicembre

O Chiave di Davide,
scettro della casa d’Israele,
che apri, e nessuno può chiudere,
chiudi, e nessuno può aprire:
vieni, libera l’uomo prigioniero,
che giace nelle tenebre e nell’ombra di morte.

Mentre attendiamo la venuta del Cristo a Natale, lo salutiamo: «O Chiave di Davide e scettro della casa di Israele». Già l’angelo Gabriele portando a Maria la notizia del disegno di Dio su di lei, le aveva parlato di un Figlio, che lei avrebbe avuto: «Sarà grande e sarà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre nella casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (Lc 1, 32-33). Anche Gesù più tardi in diatriba con i suoi oppositori, farà loro riconoscere che il Cristo è figlio di Davide e che questi lo riconosce Signore.
Quando, in questi giorni di preparazione di Natale, noi ci rivolgiamo a Cristo con l’appellativo: «O Chiave di Davide, scettro della casa di Israele», riconosciamo in lui il Signore da cui derivano tutte le signorie e i poteri. La chiave racchiude in sé un simbolismo, proprio all’antichità pagana e biblica, di potere, di amministrazione, di responsabilità. La consegna delle chiavi, dopo la presa di una città, equivaleva al riconoscimento che il vincitore era padrone di tutto. A un ministro della casa reale erano date le chiavi della casa, come segno della sua investitura e del suo ufficio. Poiché tali chiavi erano piuttosto grosse e non potevano essere portate in tasca, come noi siamo abituati a fare, esse venivano poste sulle spalle del designato. Di là deriva il nostro modo di dire: porre una responsabilità sulle spalle di qualcuno.
Sulle spalle del pio Eliacim venne messa, per ordine di Dio, la chiave del potere che era stato tolto a Sebnà, poco amante di Dio (cfr Is 22, 20-25). Dio ne dà spiegazione: «Porrò sulle sue spalle le chiavi della casa di Davide; se egli apre nessuno chiuderà, se egli chiude, nessuno aprirà».
Eliacim è immagine del Messia. Cristo stesso riprende per sé il titolo e la funzione di cui sopra, parlando, nell’Apocalisse, alla chiesa di Filadelfia: «Così parla il Santo, il Verace, Colui che ha la chiave di Davide: quando egli apre nessuno chiude e quando chiude nessuno apre» (Ap 3, 7).
La casa di Davide è indicatrice della Chiesa e del regno dei cieli. Solo il Salvatore ha il diritto di introdurre le anime nello stesso regno. Egli porta sulle spalle il simbolo di tale potere, datogli dal Padre: la croce. Essa è la chiave, per mezzo della quale il Cristo apre il cielo.
Ma l’uso dell’immagine della chiave nei giorni dell’Avvento, vuole ricordare che il Cristo, già con la sua venuta, è la chiave che apre il carcere del peccato, a coloro che vi si trovano, vittime di questa miseria. La prospettiva è aperta dall’allusione che il testo dell’antifona («Vieni, e libera l’uomo prigioniero») fa alla profezia di Isaia: «Io, il Signore, ti ho destinato… perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri» (Is 42, 7).
Il Cristo non viene per condannare, ma viene solo per liberare coloro che «giacciono nelle tenebre e nell’ombra di morte» (cfr Lc 1, 79). I due termini sono sufficienti a richiamare lo squallore del carcere, così ben conosciuto nell’antichità. E oggi? Quante catene tengono prigioniero l’uomo contemporaneo! Il Cristo, che incarnandosi si è fatto «prigioniero» della nostra carne, restituisce la libertà a tutto ciò che lui ha reso libero per grazia, risolleva tutti alla dignità di uomini redenti.

Preghiamo per quanti cercano lavoro, casa, assistenza e conforto. Il Signore ci aiuti in questo Natale a offrire amore, pace e calore a tutti.
Recitiamo il Salmo 130.

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21 dicembre

O Astro che sorgi,
splendore della luce eterna, sole di giustizia;
vieni, illumina chi giace nelle tenebre
e nell’ombra di morte

Nel linguaggio biblico l’Oriente è quella parte del mondo da cui ogni giorno arriva agli uomini la luce, il calore, la vita. Questa concezione appare già nel racconto biblico della creazione dell’uomo: «Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a Oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato…» (Gen 2, 8). L’origine di ogni essere è nel paradiso, «in Oriente».
Il cristianesimo fin dagli inizi fu consapevole di tale simbolismo e frequentemente si aprì ad esso. Nel Battesimo, al momento in cui il catecumeno faceva la sua rinuncia a satana, alle sue opere e seduzioni, doveva voltarsi verso l’occidente, considerato come la regione delle tenebre. Per giurare la sua fedeltà a Cristo, sole di salvezza, si rivolgeva invece verso oriente. Era l’inizio simbolico della via della salvezza, che il battezzato intraprendeva per staccarsi dalla rovina e dalla morte e procedere verso la risurrezione, la vita, la luce.
Il medesimo simbolismo diede origine all’uso di fare la preghiera voltandosi verso oriente, perché, spiegava Origene, uno che ha ricevuto il nome di Cristo, diviene figlio dell’oriente e lì deve dirigere i suoi desideri.
Tale concetto è il motivo per il quale le chiese sono «orientate», cioè con l’abside verso oriente. Anche i morti sono stati seppelliti con la faccia ad Oriente. Di lì, un giorno, ritornerà il Signore per l’ultimo giudizio.
Non c’è da stupirsi pertanto che il tema del Cristo «Oriente – Astro che sorge» sia compenetrato con tutta la liturgia, specialmente con quella della Pasqua e del Natale, con la liturgia delle Ore, per la quale basterà citare l’inno ambrosiano: «Splendore della gloria paterna…».
La preghiera al Cristo, invocato, in questa giornata, come aurora che sorge, si arricchisce di due altri appellativi: Cristo è «splendore di luce eterna e sole di giustizia».
La luce è sempre stata considerata come attributo della divinità: «Dio è luce e in lui non ci sono tenebre» (1 Gv 1, 5). Dio «è avvolto di luce come di un manto» (Sal 103, 2). «Egli abita una luce inaccessibile» (1 Tim 6, 16). Quando il Messia nascerà, afferma Isaia, il popolo che cammina nelle tenebre vedrà una grande luce, su coloro che abitano in terra tenebrosa una luce rifulgerà (cfr Is 9, 1). A quaranta giorni dalla sua nascita, il Salvatore, è riconosciuto da Simeone nel tempio come «luce che illumina le genti» (Lc 2, 32). Egli «è la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 2, 32). Cristo stesso potrà un giorno assicurare: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8, 12). Avviene ciò durante l’esistenza di un cristiano. Come la luce del sole dà a tutte le cose di questo mondo il loro giusto contorno e permette di vederle e di goderle, così fa il Cristo «sole di giustizia» (Mal 3, 20) per tutte le situazioni della vita, e le trasforma in occasione di bene.
Al Cristo «aurora che sorge, splendore della luce eterna, sole di giustizia» oggi si indirizza la supplica: «Vieni, illumina chi giace nelle tenebre e nell’ombra di morte» (cfr Lc 1, 79).
Con il padre di Giovanni il Battista, Zaccaria, il primo che ha parlato così nel suo cantico, si riconosce che noi, con il nostro mondo, siamo tanto poveri di luce divina.
A Natale «il sole di giustizia verrà a visitarci dall’alto» (cfr Lc 1, 78) e non si farà schermo alla sua luce perché arrivi a ogni uomo: i misteri del Natale, così, continueranno a portarci luce, vita, gioia.

Preghiamo oggi per quanti operano il male e giacciono nelle tenebre dell’errore e del peccato. Per quanti fanno soffrire i propri vicini, i propri familiari, i propri cari.
Recitiamo il Salmo 62

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22 dicembre

O Re delle genti,
atteso da tutte le nazioni,
pietra angolare
che riunisci i popoli in uno,
vieni,
e salva l’uomo che hai formato dalla terra.

La preghiera, che la liturgia mette sulle labbra per questo giorno, crea intorno al trono del Re-Messia un grande movimento di popoli e accenna a desideri che sono stati formulati nel corso dei secoli, nell’aspettativa sempre viva di un Salvatore: «O Re delle genti, atteso da tutte le nazioni…».
Nel mondo pagano, la figura del re apparteneva alla sfera del divino. Egli era ritenuto un’incarnazione della divinità, era portatore di particolari privilegi; tutti i suoi atti erano ritenuti divini, a lui doveva essere attribuito un culto. Per un giudeo, le cose erano diverse: il posto di Dio non poteva essere usurpato da nessun uomo, anche se re. Dio è il vertice e la sua pozione è ben determinata. Il Signore è il nostro giudice, nostro legislatore, re: egli ci salverà, dice varie volte la Scrittura.
Quando Israele, in un certo momento della sua storia, vuole avere un re, questi resta sottomesso, come tutti gli altri uomini, alle esigenze della Legge e dell’Alleanza con Dio. Con Davide, la sua situazione di fronte a Dio viene precisata. Davide riceve da Dio la promessa che il suo regno sarà stabile. Il re viene chiamato, dopo la sua intronizzazione, figlio di Dio: «Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato» (Sal 2, 7).
Il disegno di Dio abbozzato nelle profezie si realizzerà nella pienezza dei tempo. Ad essi si riferisce il profeta Isaia quando annunzia la nascita del re, che porterà al popolo di Dio gioia, vittoria, pace e giustizia. Le promesse proposte dai profeti definiranno il ruolo di Gesù, creatore del regno. Di esso parla l’angelo Gabriele a Maria: «Il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (Lc 1, 32-33). La ricerca dei magi a Betlemme e l’offerta dei doni sono un riferimento simbolico al regno del Cristo. Durante la vita pubblica, molte voci acclameranno al Cristo discendente di Davide e nella giornata delle Palme diverranno un coro esaltante la sua regalità. Anche nell’Apocalisse inni celesti affermeranno: «Il regno del mondo appartiene al Signore nostro e al suo Cristo: egli regnerà nei secoli dei secoli» (Ap 11, 15).
Questa è la storia da leggersi dietro l’appellativo «Re delle genti…». A Natale noi adoreremo il Cristo Re, nato per noi. Mentre lo si riconosce tale, si prega e si lavora perché il «suo regno venga», si dilati e si consolidi.
La prima terra di conquista sarà il nostro cuore: che esso non gli sia solo dimora, ma gli sia regno. Il re che viene farà intorno a sé unità. Simbolo di essa è la pietra fondamentale o pietra d’angolo, cioè quella prima pietra da cui nasce una costruzione, e che la tiene insieme. Questa pietra è stata guardata nella tradizione giudeo-cristiana come un’immagine del Messia e della sua missione. Isaia riporta la parola di Dio: «Ecco, io pongo una pietra in Sion, una pietra scelta, angolare, preziosa, saldamente fondata; chi crede, non vacillerà» (Is 28, 16). A tale profezia si riferisce Pietro, quando ricorda ai membri del Sinedrio che Gesù è «la pietra che, scartata dai voi costruttori, è diventata testata d’angolo» (At 4, 11). Poiché il Cristo è la pietra fondamentale, Pietro trae le conclusioni: è necessario stringersi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, per essere impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale… (cfr 1 Pt 4, 5). Cristo stesso aveva applicato a se stesso questo passaggio di Isaia quando, raccontata la parabola dei vignaioli perfidi, l’aveva conclusa severamente: «Non avete mai letto nelle Scritture: “La pietra, che i costruttori hanno scartato, è diventata testata d’angolo? Dal Signore è stato fatto questo ed è mirabile ai nostri occhi”. Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare…» (Mt 21, 42-43).
Gli scritti apostolici ritorneranno su questi testi, non solo per dimostrare con essi la messianicità del Cristo, ma per indicare che non si può essere neutrali di fronte al Cristo stesso. O lo si fa entrare come pietra fondamentale delle nostre costruzioni oppure diviene egli come pietra in cui inciampano coloro che in lui non credono. Paolo scrivendo agli efesini vede possibile che tutti facciano crescere «in Cristo, pietra angolare, ogni costruzione ben ordinata, per essere tempio santo del Signore» (Ef 2, 20-21).
L’antifona ricca delle immagini di un regno aperto a tutti, e nel quale tutti si trovano riuniti, grazie al Cristo, si chiude con una invocazione che richiama lo sguardo del Messia sulla fragilità dell’uomo, che Dio creatore ha modellato sulla terra a sua immagine. Perduta la somiglianza con Dio a causa del peccato, l’uomo si incontra nel mistero dell’Incarnazione con la benignità e la misericordia di Dio, che lo innalzano alla dignità d’origine.
Quando ci si inginocchia dinanzi al presepio, ci si rialza con la fronte recinta di corona regale. Ce la ridona colui che ha voluto condividere la nostra natura umana.

Preghiamo per le famiglie disunite, disgregate e separate. Il Signore, che unisce i cuori in uno, faccia sperimentare la gioia del riunirsi, del rivedersi e dello stare insieme.
Recitiamo il Salmo 138

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23 dicembre

O Emmanuele,
nostro re e legislatore,
speranza e salvezza dei popoli:
vieni a salvarci,
o Signore nostro Dio.

«O Emmanuele, nostro re e legislatore, speranza e salvezza dei popoli: vieni a salvarci, o Signore nostro Dio». Così si prega con l’antifona assegnata per la giornata odierna. Si ha subito l’impressione che l’orazione riprenda alcuni temi che sostenevano già l’antifona di ieri: la regalità del Cristo, l’attesa di lui da parte di tutte le nazioni, lui, fonte di salvezza. Ma gli appellativi con cui oggi ci si rivolge al Messia, sono più vicini e familiari a noi. Si parla di un Dio, che sta per entrare nella famiglia degli uomini e vi rimarrà come l’Emmanuele, cioè Dio con noi. Il nome Emmanuele riporta alla profezia di Isaia, circa la nascita liberatrice di un bambino, della famiglia di Davide, nel momento in cui essa si trova in pericolo estremo e circa il prodigio della partenogenesi cioè della maternità verginale di una donna.
Il Nuovo Testamento, e tutta la tradizione cattolica, vedranno realizzata la profezia in Maria e in Cristo «Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace» (Is 9, 5). Dal giorno in cui la parola profetica divenne realtà storica e «il Verbo si fece carne e abitò in mezzo a noi» (Gv 1, 14), la conoscenza di Dio, nell’esplicita determinazione del Verbo-Uomo e della Vergine-Madre si sparse nel mondo e gli adoratori del solo Dio furono, nella maggioranza, gli adoratori del Dio fatto uomo e del Bimbo, figlio della Vergine.
Sulla base di genealogie, tutti constatarono che questo Bimbo era discendente della casa di Davide. Il suo nome non era Emanuele, ma Gesù. Ma egli era realmente il Salvatore e il «Dio con noi» (Mt 1, 23). Crebbe nel nascondimento fino al giorno in cui apparve come luce per tutti, ma specialmente per i semplici e i poveri, che accoglievano con animo aperto il regno di Dio. Ad essi, in particolare, quell’Uomo facilitava il collegamento con Dio. Ad essi era assicurata la gioia che Dio visitava il suo popolo e che non lasciava mancare a nessuno il suo aiuto. Chi credeva in Gesù, il Cristo, sperimentava che in lui si realizzava il contenuto e l’importanza del nome Emmanuele, che i profeti avevano affidato ai secoli dell’attesa. Diveniva allora facile accostare a questo appellativo gli altri nomi, che il profeta aveva previsto come proprio del Bambino nato. A dire la prudenza e la sapienza dell’Emmanuele lo avevano chiamato «Consigliere ammirabile»: Cristo si sarebbe manifestato tale nella sua dottrina, fonte di serenità. Un altro titolo, quello di «Dio potente», proclamava la divinità del Bambino. Il chiamarlo «Padre per sempre» metteva in evidenza l’amore che avrebbe legato, per sempre, il re nato e i suoi sudditi. La qualifica di «Principe della pace» gli era data perché l’Emanuele promulgava la pace tra Dio e l’uomo.
«Dio con noi»: tale è il Cristo nella vita della Chiesa e degli individui fino alla fine dei secoli. Egli stesso ne ha dato certezza: «Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20). Allora lo si vedrà nello splendore della sua regalità e della sua giustizia, come speranza dei popoli e loro salvatore. In quel giorno troveremo sicuramente Colui, che abbiamo cercato come nostra salvezza in tutti i momenti della vita. Uno è quello con cui si chiude oggi la nostra preghiera: «Vieni a salvarci, o Signore nostro Dio».

Preghiamo per quanti sono dimenticati dalla società, per i poveri, per i disoccupati, gli emarginati.
Recitiamo il Salmo 66

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24 dicembre

Quando sorgerà il sole,
vedrete il Re dei re:
come lo sposo dalla stanza nuziale
egli viene dal Padre.

Signore nostro Dio! Quando la paura ci prende, non lasciarci disperare! Quando siamo delusi, non lasciarci diventare amari! Quando siamo caduti, non lasciarci a terra! Quando non comprendiamo più niente e siamo allo stremo delle forze, non lasciarci perire! No, facci sentire la tua presenza e il tuo amore che hai promesso ai cuori umili e spezzati che hanno timore della tua Parola.
È verso tutti gli uomini che è venuto il tuo Figlio diletto, verso uomini abbandonati: poiché lo siamo tutti, egli è nato in una stalla e morto sulla croce. Signore, dèstaci tutti e tienici svegli per riconoscerlo e confessarlo.
Pensiamo a tutta l’oscurità e a tutte le sofferenze di questo nostro tempo, agli errori e ai numerosi malintesi con i quali ci tormentiamo gli uni gli altri, a tutti i pesi che tante persone devono portare senza conoscere consolazione, a tutti i gravi pericoli che minacciano il mondo senza che si sappia come affrontarli. Pensiamo ai malati, agli alienati, ai poveri, agli esiliati, agli oppressi, alle vittime dell’ingiustizia, ai bambini che non hanno genitori o che non hanno dei buoni genitori. Pensiamo a tutti quelli che sono chiamati a servire, nella misura in cui gli uomini possono farlo: alle autorità del nostro paese e di tutti i paesi; ai giudici e ai funzionari, agli insegnanti e agli educatori, agli scrittori e ai giornalisti, ai medici e agli infermieri, ai ministri della tua Parola, che Ti servono, vicini e lontani.
Pensiamo a loro pregandoTi di far brillare su di loro e su di noi la luce di Natale, di renderla ancora più brillante di quanto sia avvenuto fino ad oggi, affinché vi trovino – e noi con loro – il soccorso di cui hanno bisogno. Ti domandiamo tutto questo nel nome del Salvatore, nel quale ci hai già esauditi e vuoi continuare ad esaudirci. Amen.

Preghiamo il Signore -con il Salmo 22-, per quanti passeranno questo Natale nella tristezza, nella solitudine e nell’abbandono.

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