Monastero Carmelo Sant'Anna

Carpineto Romano

Vocazioni

Le storie di vocazione delle nostre sorelle.

Le nostre Sante Monache

Suor Maria Benedetta di san Michele Arcangelo (?- 1702) Una figura semplice, ma molto simpatica, è suor Maria Benedetta di san Michele Arcangelo, al secolo Maria Cecilia, figlia di Tomaso Tomasi, un nobile cittadino dell’Isola di Cipro, da dove era fuggito per porre in salvo la sua fede cristiana, messa in pericolo qualora fosse rimasto con i Turchi invasori. Per aver abbandonato quanto aveva, si trovò nella più squallida miseria; e, venuto a Roma, fu preso sotto protezione del card. Antonio Barberini. Sposatosi “con una onorata donna” ebbe cinque figli: due maschi, che si erano dati alla musica e morirono in età giovanile, e tre femmine, l’ultima delle quali era Maria Cecilia. La cronista descrive i tratti della sua vita con tanta passione da dimenticarsi persino di darci il giorno e l’anno di nascita e la data della sua professione religiosa. “Dall’infanzia fu inclinata alla devozione, alla modestia e alla solitudine; fuggiva la conversazione anco delle proprie sorelle, ritirandosi nelle rimote parti della casa per godere (come ella diceva) la conversazione di Gesù”. Era laboriosa e metteva da parte quanto guadagnava “per donarlo a Gesù”; mentre le sorelle “se lo spendevano in nastri e vanità”. Quando queste si furono sposate, i genitori sollecitavano Cecilia a scegliersi il proprio stato, ma ella pregava perché il Signore le manifestasse la sua volontà. “Stando un giorno in preghiera, sentì una voce che le disse: ‘Maria Cecilia, hai da essere mia sposa’. Il contento che sentì, non si puole esplicare. Si diede maggiormente agli esercizi divoti e alla frequenza de’ ss.mi sacramenti”; e ai genitori ripeteva: “Io non voglio altro sposo che Gesù”. “Un giorno fu bussato alla porta di casa e i genitori mandarono giù a vedere chi era. Ed un tale (o fusse demonio o altri) la cominciò a lusingare e persuadere di accettare le sue nozze. Al che ella esclamò: Gesù, Gesù mio, aiutatemi’; e serrandoli la porta in faccia, corse subito al suo oratorio sul soffitto di casa, ove genuflessa si pose a ringraziare con lagrime Sua Divina Maestà di averla liberata da quella occasione”. Su indicazione di donna Costanza Magalotti, nel 1640 entrò nel monastero dell’Incarnazione e, presentandosi alla Madre Priora, le consegnò i suoi risparmi: “Madre, questo ho ricavato dalli miei lavori e fatiche; mi dispiace di non aver altro per dare al Signore, che se più avessi avuto, più li darei”. Vestì l’abito il 16 luglio 1641 come sorella conversa; e, la mattina della vestizione, la Priora le suggerì di chiedere al Signore, durante la cerimonia, la grazia “per la sanità di una fanciullona di setti anni [Costanza Quaratesi] comunicata quella mattina la prima volta per viatico e già spedita dai medici”. Maria Cecilia supplicò il Signore durante il canto del Veni Creator Spiritus e ottenne la grazia “per la Costanzina” che, in seguito, divenne monaca all’Incarnazione col nome di suor Maria Teresa della SS.ma Trinità. Attendeva al suo lavoro di cucina con molta attenzione ed esattezza, dandogli un significato spirituale: “Mentre cucinava e spartiva le porzioni, se la passava in silenzio e sante considerazione; preparando le pietanze, quella che faceva per la Madre Priora, s’immaginava farla per cibare spiritualmente Gesàù, quella per la madre sottopriora per la beata Vergine, l’altre per la comunità le faceva per li santi Apostoli. Altre volte per li poverelli o per l’anime del Purgatorio, eseguendo ciò con molta diligenza e devozione”. Viveva continuamente alla presenza del Signore; e alle consorelle che, meravigliare, le chiedevano quale metodo usasse, rispondeva con semplicità: “procuro sempre di operare per Dio e con esso conversare”; e allo scopo valorizzava ogni più piccolo atto. Per conservare il raccoglimento, mortificava con somma cura la curiosità tanto che, la chiamavano Maria Cecilia, e poi religiosa Maria Benedetta, dagli occhi cuciti”. Le era stata affidata la custodia del giardinetto di san Caio ove, ciò che vi piantava, cresceva a meraviglia: fiori e piante da frutto. Su ogni cosa faceva le sue considerazione: la rosa la spingeva a chiedere al Signore “un acceso amore”; il giglio e il gelsomino “la purità interna ed esterna”; “il garofano, che le sue azioni fossero tutte odorifere al suo Gesù. E così di frutti e pomi…E il Signore sempre le comunicava nuovi affetti, lumi, desideri ed efficaci considerazioni”. Era tanto il suo amore per il Signore e continua la sua unione con lui che “il confessore gli ordinò in quest’ultimo [tempo] di comunicarsi ogni mattina”. Eppure una creatura così semplice e amabile, che era vissuta solo per il “suo” Signore, doveva chiudere la vita terrena tragicamente: “Un giorno…se ne andò al giardino di san Caio per adequare agrumi e fiori, come fece; ed era solita alfine riposarsi sedendo sopra la sponda della vaschetta di dove prendeva l’acqua da innaffiare… Era sola, si pose a sedere come al solito; o si ponesse troppo in dentro, o li venisse qualche accidente, Dio lo sa, vi cascò colla faccia verso il cielo, senza potersi aiutare, e vi affogò”. Era il 31 agosto 1702 (1). (1) A.P.G., Post. IV, 40 Vitae, ff. 19v-21r.

Suor Maria Grazia di san Clemente (1684- 1732) Degna di memoria è suor Maria Grazia di San Clemente, appartenente alla famiglia Albani. Nacque a Urbino il 7 agosto 1684 da Orazio, fratello di Clemente XI, e Bernardina Onedei. Olimpia, così fu chiamata al battesimo, fin da fanciulla fu incline alla pietà, al raccoglimento e alla sopportazione della sofferenza; pur dotata di un naturale allegro e brioso, tuttavia amava stare ritirata. Si intratteneva col fratellino Annibale, maggiore di due anni, in giochi di devozione: lui imitava i missionari e raccontava alla sorellina fatti spaventosi, esortandola a convertirsi; lei prendeva tutto sul serio, si compungeva fino alle lacrime. Una volta nel gioco fu colpita alla testa, e per non far rimproverare il fratello e per il desiderio di soffrire, tacque finché non le venne un’infezione. Nel 1693 venne a Roma con i suoi familiari e conobbe lo zio cardinale Gianfrancesco, futuro papa Clemente XI; questi ammirò molto lo spirito e l'indole della nipotina. All'età di dieci anni fu ammessa alla prima comunione; cosa rara a quel tempo. Si ritirò all'istituto del Bambino Gesù per prepararsi e lì fu celebrata anche la cerimonia. Poco dopo fu messa a scuola presso le Orsoline. Da giovinetta era alquanto riservata; né dava né riceveva confidenze eccessive. Benché per l'addietro si fosse dimostrata alienissima alle vanità del mondo e incline allo stato religioso, col crescere degli anni sembrò gustare la libertà e le vanità giovanili; ma a dodici anni pregò lo zio cardinale di affidarla a un monastero, procurando un grande dispiacere alla mamma che godeva della sua piacevole compagnia. Così, appena dodicenne, entrò nell'educandato del Monastero delle Barberine dove, per tre mesi, non fu vista mai contenta, benché simulasse; in seguito però amò molto quel luogo di preghiera e di perfezione. Ebbe per direttore spirituale un religioso teatino che la liberò dalle angustie e dalla paura di essere dannata per i suoi peccati. Poi si affidò alla direzione di un padre domenicano che, nella perplessità di scelta fra le domenicane e le carmelitane, la consigliò di rimanere dove si trovava. Divenuto papa lo zio, i parenti pensavano di collocarla in matrimonio con un nome illustre, ma ella rimase ferma nella sua scelta. I genitori, però, non furono contrariati; l'accompagnò al monastero suo padre, poiché la mamma era ammalata. Il 25 marzo 1702, festa della ss. Annunziata, lo zio papa, dopo aver partecipato alla festa in chiesa con la comunità, passò in convento per visitarla ed esaminarla nella vocazione. L'anno dopo, nella medesima festa, il papa le diede l'abito religioso per l'inizio del noviziato ed ella prese il cognome religioso di san Clemente in omaggio allo zio; al termine della cerimonia, la mamma l'abbracciò con grande effusione. E il 25 marzo del 1704 emise i voti solenni nelle mani del papa e da lui prese il velo. Il cardinale Annibale, suo fratello, "in occasione della nuova fabbrica [una parte del monastero] rinnovò tutte le tavole, spalliere, sedili e la porta di noce del refettorio per la spesa di 1648 scudi". Terminato il giovanato le fu dato l'ufficio di sagrestana; poi ebbe il compito di accompagnare in clausura le secolari e, in seguito, fu fatta maestra delle converse, alle quali attese con zelo e somma carità, non mancando di procurar loro tutto il sollievo che poteva. Aveva uno spirito virile: la perdita dei suoi più stretti congiunti l'accettava non meno rassegnata che generosa, reprimendo persino le lacrime per non concedere alla natura nemmeno il conforto di questo sfogo. Attese le continue infermità, fu costretta a dimorare alcuni mesi nell'infermeria ed essere dispensata da tutti gli atti comuni; ma a ogni miglioramento riprendeva subito la piena osservanza. Sembra che Dio in ogni tempo le abbia offerto l'occasione per patire; fattasi religiosa, vi aggiunse anche le penitenze volontarie, fuggendo ogni comodo. La fortezza dimostrata nelle sofferenze era oggetto più di ammirazione che di imitazione. Anche nell'obbedienza fu sempre sottomessa ai confessori, padri spirituali e superiori; nei loro ordini trovava la sua serenità la sua pace; caso mai qualche croce le venne quando questi ordini erano in contrasto fra di loro. La sua conversazione era non meno di sollievo che di profitto, poiché nell'allegria introduceva spesso discorsi spirituali, parlando delle virtù, a cui spronava le altre col suo esempio, specialmente le giovani. Di Dio aveva un concetto così elevato che, parlando di lui e della Sacra Scrittura, non le piaceva che fossero usate immagini non adeguate, poiché Dio e le sue qualità sono del tutto sublimi. Non ne aveva soltanto un'idea elevata, ma era la sua continua aspirazione. La speranza della sua eterna salute era fondata sul Sangue Preziosissimo di Gesù e nella sua misericordia. Pensando al cielo recitava: "E' già stanca l'anima mia - di viver forme terrene- avidissima desìa -vagheggiare il Sommo Bene". Era così accesa dell'amore di Dio che il p. Alessandro Bussi la chiamava Serafina dell'amore divino. Le opere che riguardavano il culto le eseguiva con diligenza e ordinatezza; avendo cura di una cappelletta della Madonna, cercava sempre di rinnovarle gli arredi per onorare la madre celeste. Nell'ottobre del 1731, quando si ritirò per gli ultimi esercizi spirituali, era così estenuata e mal ridotta in salute che pareva mancasse a ogni momento. Ma da un po' di tempo la sua salute aveva segnato un visibile peggioramento: "Oltre allo sconvolgimento dello stomaco, cominciò a consumarsi in modo che, essendo alta di natura, pingue e complessa, le restò la sola pelle sull'ossa". I medici diagnosticarono "un cirro al fegato". All'inizio del nuovo anno, non potendo più reggersi, si mise a letto e vi rimase fino a primavera. Col beneficio del latte migliorò tanto che potè alzarsi e scendere ogni mattina, "col merito dell'ubbidienza, per comunicarsi, però con sommo suo gradimento". Il resto della giornata lo passava in cella lavorando con altre, ma in silenzio per la difficoltà di parlare a causa dell'oppressione del petto. Il 20 giugno ebbe "una stretta di convulsioni così terribile, che mancandole il respiro" fu sul punto di morire; e il medico disse che "in uno di questi insulti poteva morire". Durante questa malattia la visitarono più volte i fratelli cardinali e la principessa cognata, come pure alcuni religiosi; tutti rimanevano edificati della pazienza e rassegnazione. Il giorno di san Giacomo ricevette il viatico. Al padre visitatore disse: "siamo arrivati finalmente a quello che tanto ho desiderato". E alla sua esortazione a rassegnarsi alla volontà di Dio replicò: "Ho scrupolo perché non so se sia amor proprio, che mi pare di patire e morire volentieri, ma può essere che siano idee della mia mente". Ricevette l'unzione del Santo Padre in artuculo mortis. Migliorò per qualche giorno ma alla fine, sentendosi oppressa, chiese di essere sollevata. Il padre visitatore le disse che non era più tempo di cercare sollievo dalle creature, ma solo Dio poteva darglielo. Con la sua solita pace e rassegnazione rispose: "Sia fatta la volontà di Dio". Non parlò più, ma tenne gli occhi fissi sul Crocifisso che fu di santa Maria Maddalena ed era portato a tutte le religiose moribonde. Atteggiando la bocca al sorriso e congiungendo le mani sul petto "placidamente spirò senza un minimo moto" alle ore 22 e un quarto del 31 luglio 1732. Il giorno dopo il card. Annibale -suo fratello- mandò un pittore a ritrarre le sue sembianze.(1) 1) A.P.G. Post. IV, 47, Suor Maria Grazia, ff. 119r-134r.

Suor Maria Felice di Gesù Trionfante (1638 – 1702) Viene detta dalla cronista “esemplarissima religiosa”. E’ nata a Firenze il 30 maggio 1638 da Pietro Falconieri e Dianora Del Bene; al battesimo fu chiamata Maria Virginia. Fin dai primi anni fu incline alla pietà e dedita alla pratica delle virtù. Per la sua bellezza la chiamavano “la bella Virginia Falconaria”; e forse con questo appellativo si voleva esprimere la forza d’attrazione esercitata dal falcone. Ma la pia Virginia, fra i dodici e i tredici anni, entrò nell’educandato dell’Incarnazione, dove si era monacata la sorella suor Maria di Gesù Bambino. Dopo “lunghe e perseveranti istanze” ottenne dai genitori di farsi monaca; nell’espressione della cronista si intravede la loro riluttanza a dare il consenso, forse perché anche la sorella maggiore aveva già preso l’abito religioso. Virginia passò direttamente dall’educandato alla prova, senza voler uscire per alcuni giorni, come era concesso, per dare l’addio ai parenti e al mondo. Terminata la prova, “genuflessa, a braccia piegate sul petto, umilmente priegò una per una le vocali di non mirare li suoi difetti ma si degnassero accettarla al santo abito” che ricevette il 4 maggio 1653 dalle mani del card. Francesco Barberini; la madre fondatrice volle che si chiamasse suor Maria Felice di Gesù Trionfante. Il 5 maggio 1654 lo stesso porporato presiedette la cerimonia della professione solenne e della velazione. “Per li suoi rari costumi ed ingegno fu impiegata in diversi officij, in particolare di provedere a tempo la comunità”. Per la sua maturità di spirito, mentre era occupata in lavori, “alzava la mente a Dio, e piano si sentiva proferire ‘a gloria vostra Signore’, e subito ripigliava il filo delli conti” e altro. Non godette mai di una salute robusta, per cui dovè sopportare frequenti indisposizioni e “accidenti”; la dopo vari anni “le sopraggiunse un’altra infermità che la ridusse talmente impotente che la vestivano, ponendola sopra una sedia, del tutto immobile”. Sembra che si trattasse di una forma grave di paralisi, perché la cronista dice che era tutta “rattrattata” da non poter fare nessun movimento; e “se si sforzava alzarsi un poco dalla sedia, cadeva e s’incurvava verso la terra, inclinando la testa tra le ginocchia”. Da questa grave malattia fu guarita all’istante il 19 marzo 1680 per intercessione di santa Maria Maddalena de’ Pazzi, mentre leggeva una lettera di lei, scritta al fratello, portata il giorno prima dal padre Serafino Potenza che voleva essere sicuro della sua autenticità. Si trovava in monastero il padre confessore, entrato per confessare le ammalate, il quale ordinò una solenne funzione di ringraziamento a cui partecipò la miracolata. La cronista aggiunge che “questa cara sorella non solo tornò sana dalla stroppiatura, ma da altre sue indisposizioni”. E il fatto dovè destare meraviglia, perché ne fu mandata la descrizione anche alla comunità di Vetralla. E suor Felice “tornò subito alla vita comune sì del coro, che del vitto ed ogni altro ufficio, seguendo con gran fervore sino all’ultima sua infermità”. Nel 1697 fu eletta maestra delle novizie, ufficio che esercitò con grande suo impegno e frutto spirituale delle sue allieve fino alla morte, avvenuta il 31 maggio 1702 (1). (1) A.P.G. Post. IV 40, Vitae, ff. 16r-18r.

Suor Maria Arcangela del ss.mo Sacramento (1631 - 1688) Suor Maria Arcangela del ss.mo Sacramento lottò con costanza per rispondere pienamente alla chiamata del Signore alla santità. La cronista fa memoria di una certa sua incostanza iniziale perché alternava periodi di ardente fervore a periodi “in cui si intiepidiva ne’ santi esercizi”. Quando le compagne la vedevano darsi agli esercizi comuni dicevano: “A vostra carità sono volate le ali”; quando invece ritornava ai primi fervori: “il serafino ha inalzato il volo”. E’ nata a Roma nel 1631 da Ettore Orsini e da Luisa Schiardi che, al battesimo la chiamarono Clelia. A quattordici anni vestì l’abito religioso, il 16 luglio 1645, dopo essere stata educanda nel monastero dell’Incarnazione. Il 15 agosto 1646 professò solennemente e ricevette il velo dalle mani del confessore. Si diede subito all’esercizio di tutte le virtù; “e quando il Signore le diede il dono della perseveranza”, si mantenne costantemente nella pratica della perfezione. Gioiva nel prestare servizi a tutte le consorelle, “anche converse”, senza alcun risparmio di fatica. Allo scopo aveva ottenuto una licenza straordinaria per lavorare fuori orario: si svegliava di buon’ora per “andare ad accendere il fuoco per fare le bugate, portava la legna e lavava tanto che”, quando giungevano le consorelle, “trovavano già fatta la prima caldaia. Era di dolci maniere con tutte” ed era così sottomessa che tutte potevano farle delle osservazioni per migliorare la sua condotta. Non si giustificava mai, ma rispondeva umilmente col sorriso sulle labbra: “E’ vero, avete ragione; mi voglio emendare, veramente non ne fo una diritta”. Evitava con scrupolo l’ozio procurando di essere sempre occupata o nella preghiera o in qualche lavoro: non solo si levava prima delle altre ogni mattina, “ma neppure l’estate il giorno riposava, ma rinserratasi in cella, stava con Dio negoziando il suo profitto spirituale. Componeva e scriveva meditazioni, novene ed esercizi devoti, specialmente in onore della Beata Vergine Maria”. Per ordine del confessore si privò di tutti i suoi scritti, che furono conservati nella libreria del monastero. Amava teneramente la Madonna che chiamava con affettuosa familiarità: “Mamma mia”. Si ritirava spesso a pregare “nel coro della notte” davanti a un’immagine ritenuta miracolosa. Il 15 agosto del 1684, nel rinnovare la professione religiosa fatta trent’otto anni prima, si offrì a Gesù come vittima di olocausto e alla Madonna in schiava perpetua. Fuggì sempre gli uffici maggiori. Col permesso del confessore voleva fare il voto perpetuo di non accettare mai di essere eletta priora; ma questi, per prudenza, glielo faceva rinnovare ogni quattro anni. Nel 1688, poco prima del capitolo elettivo, sentì che si faceva il suo nome per l’ufficio di priora; per scongiurare questo evento, ricorse con fiducia “all’immagine della Madonna del coro della notte” e “s’infermò con varie indisposizioni, tanto che la ridussero a essere disperata dai medici”. Gli ultimi tre giorni perse anche la parola, ricevette i sacramenti, e, “durante la lettura del Passio, alle parole et inclinato capite, emisit spiritum, ella ancora lo rese al suo Creatore”, il 18 maggio 1688 non ancora sessantenne (1). (1) A.P.G., Post. IV, 40, Vitae, ff. 10v-11v.

Suor Maria Angelica dell’Amor di Dio (circa 1650 – 1671) Una giovane che nella breve esistenza aveva edificato la comunità, è chiamata da Dio alla gloria del paradiso appena ventunenne: suor Maria Angelica dell’Amor di Dio. Fu un angelo di bontà e su tutti riversò il suo amore che Dio le aveva infuso abbondantemente con la sua grazia. Figlia primogenita dei marchesi Girolamo Vitelli e Angela Spada, Anna, così fu chiamata al battesimo, mostrò precocemente forte inclinazione alla devozione e al servizio: in casa affliggeva il suo minuscolo corpicciuolo con penitenze e digiuni, recitava il rosario e altre preghiere. Aiutava la servitù a tenere in ordine la casa, scopando le stanze e rifacendo i letti; aveva cura dei fratellini: quattro maschi e tre femminucce, affinché le donne di servizio avessero la possibilità di soddisfare i doveri di chiesa. A quindici anni entrò nel monastero dell’Incarnazione per diventare “sposa di Gesù”, come sempre aveva desiderato. Non si sa per quale ragione, prima di essere ammessa al noviziato, fu sottoposta a una prova singolare: le fu detto che non sarebbe stata accettata come corista, ma come sorella conversa; perciò per dare dimostrazione della sua capacità, doveva prestare in cucina tutti i servizi. Ella si stimò felice di questa condizione e, pur essendo “delicata e piccola di statura, faceva le fatiche e facende al pari delle altre”. Secondo l’ordine ricevuto, le consorelle “l’accusavano di ogni minima cosa; ed ella, prostrata a terra, ascoltata le aspre riprensioni, restando tutta confusa. All’ordine di alzarsi, il faceva con mansuetudine, a volto placido e umilmente eseguiva le penitenze imposte”. Terminata la prova, fu ammessa alla vestizione dell’abito religioso come corista il 14 giugno 1666. mostrò infinita riconoscenza alla religione per essere stata accettata. Il 15 giugno 1667 fu ammessa ai voti solenni e lo stesso giorno fu velata. Con grande gioia spirituale recitava l’ufficio divino; e benché fosse assorta in Dio, era esattissima anche nelle cerimonie: “la presenza di Dio fa le persone svegliate e non balorde, come succede a chi opera a caso”. “Sei mesi prima di morire ebbe quotidiane febbri e flussioni; alfine si fermò in letto con febbre grande, nel qual tempo dava molta edificazione. Ricevè con divoti sentimenti tutti li sacramenti e, su richiesta del confessore, lasciò alle compagne i ricordi spirituali” 1. Morì il 21 dicembre 1671. 1) A.P.G., Post. IV 40, Vitae, ff. 7r, 8r.

Suor Teresa della Madre di Dio (1621 - 1678) Un esempio sublime di umiltà lasciò alle consorelle suor Teresa della Madre di Dio. Con tutta probabilità è nata a Ravenna nel 1621, da Francesco Rasponi, nobile cittadino ravennate, e da Clarice Vaiani. Al battesimo fu chiamata Francesca. Era imparentata con le due fondatrici Barberini: viene detta espressamente loro “cugina”, perché la mamma Clarice “era nipote di donna Costanza Magalotti cioè figlia di una sua sorella carnale” ; altrove invece, viene detta “nipote cugina” , cioè cugina in secondo grado. E’ rimasta orfana di padre in tenera età. A undici anni, quando entrò nel monastero fiorentino di s. Maria degli Angeli, la mamma il 20 agosto 1632, fece deposito di quattrocento scudi per la sua dote a nome degli eredi del sig. Francesco, che viene detto “buona memoria”. Ma per entrare in monastero a undici anni le fu necessaria “la licenza dell’arcivescovo di Firenze e del suo Vicario; la qual grande facoltà hanno conceduto a petizione di donna Costanza Magalotti per sua lettera scritta di propria mano per essere della Francesca sua pronipote” . L’8 settembre fu accettata con votazione della comunità, il 28 gennaio 1633 fu esaminata dal can. Giuliano della Fonte sulla vocazione; e il 2 febbraio, festa della Purificazione di Maria, ricevette l’abito religioso dal can. Ludovico Arrighetti, confessore del monastero, e il nome di suor Teresa della Madre di Dio. Il 24 ottobre 1636 fu esaminata dal can. Carlo Altoviti e il 28 dicembre emise la professione solenne e ricevette il velo nero per mano del medesimo canonico. La lunga prova di tre anni fu necessaria perché la giovinetta non aveva ancora l’età canonica per emettere i voti. La sua vita fu un modello di umiltà: “pareva avesse succhiato col latte tutte le virtù, la prudenza e scienza dei santi; con tutto ciò era nel suo interno così umile e aveva così bassi sentimenti di se stessa che godeva di vedersi non stimata e posposta negli uffici alle altre”. Una volta fu messa sotto-sagrestana alle dipendenze di una giovanissima da poco tempo professa, alla quale stata soggetta come una novizia alla maestra. Raccomandava caldamente l’umiltà anche al suo fratello card. Cesare: lo consigliava di eleggere in conclave colui che avrebbe retto la chiesa a gloria di Dio e a beneficio delle anime; gli raccomandava di non ambire al papato ma, qualora fosse eletto, di avere a cuore solo Dio, la chiesa cattolica, la salute delle anime e della propria. E il cardinale confidò “al confessore del monastero che andava volentieri da sua sorella, perché sempre più ne restava edificato, che perciò l’amava teneramente”. La madre Teresa desiderava vivere nella santa povertà; per questo rammendava da sé le sue vesti che le duravano a lungo. Soleva ripetere quanto diceva la madre Fondatrice: “se ogni giorno da ciascuna religiosa si risparmiasse quanto un quattrino, alla fine del mese sarebbero pure trenta quattrini…che potrebbero essere dati alli poveri; o sarebbero pure sei pagnotte al giorno”. Nel 1644 fu eletta vicaria per completare il triennio della madre Innocenza ammalata; successivamente fu eletta priora per due trienni. Sulla fine della vita fu colpita da idropisia che sopportò con rassegnazione per sette mesi; anzi soleva dire di accettarla volentieri per scontare “i molti mali fatti nei sette anni” in cui fu superiora. Morì il 27 settembre 1678.(1) (1) A.P.G. Post. IV, 40, Vitae, ff. 8r-9r; A.G.C., Narrazione ossia informazione, ff. 40 rv.

Suor Caterina Eletta di san Giuseppe (1610 – 1655) Occupa un posto eminente nel monastero dell’Incarnazione del Verbo Divino anche per aver fatto parte del gruppo delle fondatrici. E’ nata a Firenze il 19 gennaio 1610 da Santi e Ottavia Mulinelli, la quale era oriunda di san Miniato al Todesco; al battesimo fu chiamata Caterina. Nella sua famiglia, molto religiosa e di una certa agiatezza, fu educata alla pietà cristiana, alla devozione e all’ubbidienza di cui dava segni non dubbi specialmente verso i genitori. Stranamente però, fu irremovibile nella sua decisione di monacarsi in opposizione alla loro volontà. Da principio voleva farsi monaca scalza; ma poi, avendo sentito parlare della Madre Evangelista del Giocondo, decise di entrare nel monastero di s. Maria degli Angeli. E mentre ella si estenuava in orazioni e digiuni per riuscire nell’intento, i genitori pensavano al suo matrimonio, poiché “per la sua rara bellezza, modestia e grazia, era da più cavalieri chiesta per isposa”. La mamma, quando venne a conoscere la strana idea della figlia, non le diede più pace, la sorvegliava continuamente “tenendola sempre sotto gli occhi”; e perfino “la notte la teneva a dormire nel suo letto”. La buona Caterina, “quando la mamma si era addormentata, scendeva pian piano in camiscia dal letto e, genuflessa, priegava il Signore, il suo angelo custode e l’angelo custode della madre Evangelista, affinché rivelassero alla buona vecchia il suo desiderio”. Proprio mentre Caterina pregava una di quelle notti, la madre Evangelista si svegliò e rivelò il caso di lei alla sua infermiera, ma non ricordò bene il nome della famiglia di Caterina: mentre richiamò alla memoria il nome del babbo [Santi] per omonimia col titolo della chiesa [Ognissanti] che stava di faccia al monastero, confuse il cognome Lensi con Lonsi: la veneranda Madre era “nonagenaria”, e, “per essergli caduta la goccia” [ictus cerebrale], aveva perso la memoria. Perciò per quante ricerche si facessero, non fu possibile trovare quella famiglia Lonsi. Se non che un giorno madre e figlia vanno a visitare il corpo di s. Maria Maddalena e, mentre la signora Ottavia si trattenne a parlare da una grata con la priora, Caterina da un’altra potè parlare con altre monache; alle quali manifestò il suo vero cognome, il desiderio di monacarsi in s. Maria degli Angeli e la fiducia che riponeva nelle preghiere della madre Evangelista. Fu concordato che Caterina ritornasse al più presto per passare dieci giorni in monastero, e nel frattempo, si sarebbe “ottenuta la licenza dell’Ordinario”. Infatti ritornò con i genitori per visitare la Santa e, con uno stratagemma, su fatta entrare in clausura. Dalla grata “dichiarò non volere più uscire ed ivi volersi monacare”. Il padre accettò l’esperimento di dieci giorni, ma la madre “piuttosto voleva dargli la maledizione, che tale licenza”. Trascorsi i dieci giorni, “ritornata a casa, grandi furono le battaglie con le quali dai genitori fu combattuta per distoglierla dal santo proposito”; ma “alla fine anche la signora Ottavia diede il consenso”, sebbene a denti stretti, perché “dichiarò non volere mai più vedere la figlia né parlagli”. E così fece, pacificandosi “soltanto nel 1639 quando, ormai diventata suor Caterina Eletta, la figlia andò a Roma per fondare il monastero dell’Incarnazione”1. Il 19 settembre 1626 papà Santi fece “deposito di scudi quattrocento di moneta sul Monte di Pietà di Firenze per la monacazione nel nostro monasterio della Caterina; e sono per la limosina e dote di detta, secondo gli ordini . Il 25 settembre le monache ottennero la licenza dall’arcivescovo per il suo ingresso; il 27 fu fatta la votazione nel monastero e fu accettata con l’augurio “di perfetto e santo fine come è stato buonissimo il principio di santa vocazione”. Il 20 novembre fu esaminata dal can. Lorenzo della Robbia e il 22 dalle mani di Anton Maria Riconesi “prese il santo abito con molto giubilo e devozione e si esercitò molto nelle virtù sia nel monastero di Firenze come in quello di Roma” ed ebbe il nome di Caterina Eletta. Il 4 novembre 1627fu esaminata dal can. Lorenzo Capponi e il 25, festa di santa Caterina d’Alessandria, fece la professione e ricevette il velo dalle mani del Riconesi . Fu sempre esattissima nell’osservanza regolare e piena di carità e rispetto verso tutte le consorelle, “dalla madre Priora fino all’ultima conversa; con se medesima era severa e penitente, con le altre era madre più che pietosa. Nell’orazione era assidua; insomma, era il ritratto d’una perfetta religiosa. L’officio suo più caro era quello di infermiera, che per più di venticinque anni esercitò, e vi era diligentissima di giorno e di notte; i medici stavano riposati per essere ella molto intendente ed accurata”. Era per natura “timida”; quando il 24 maggio 1649 fu eletta priora “piangeva amaramente”; e non sarebbe stato possibile farle accettare l’ufficio, “se non fosse stata sforzata dall’ubbidienza”. Anche nel priorato mostrò la sua timidezza e bontà, poiché “mai volle risolvere da sé le licenze, ma diceva di domandarle alla Madre” [Innocenza]. “Si ammalò gravemente tanto che, ridotta al fine di sua vita, con devozione e umiltà prese gli ultimi sacramenti e rese lo spirito suo puro con ogni tranquillità al Signore alle ore 16 del 19 luglio 1655 . (1) A.P.G. Post. IV, 40, Vitae, f. 4v.

Suor Paola Maria del Santo Presepio (1638 – 1662) Giovane ventiquattrenne è volata al cielo dal Monastero (dell’Incarnazione) l’11 agosto 1662, lasciando nella sua comunità il profumo di elette virtù di umiltà, semplicità e spirito di servizio. Sembra che sia nata a Roma nel 1638. Il suo padre Carlo Antonio del Pozzo, era commendatore e collocò fin da piccolina questa figlia nell’educandato delle Barberine. Lei si mostrò sempre incline alla pietà, rispettosa verso tutti e sottomessa alle norme della sua condizione di vita. A quindici anni decise di non voler più vedere il mondo e le sue vanità. Certo la sua decisione non fu provocata da delusioni di sorta, anzi, la relativa agiatezza familiare poteva darle speranza di un’invidiabile posizione nel mondo. Sorretta dal pensiero di consacrarsi a Dio nella vita religiosa, manifestò questo desiderio di vestire l’abito carmelitano, ma durante la prova di tre mesi fu colpita da grave infermità, per cui si affliggeva temendo di vedere ritardarsi la vestizione. Pregò tanto e fece pregare per ottenere da Dio la guarigione; e al termine dei tre mesi riacquistata la salute, supplicò in ginocchio tutte le suore di accettarla fra di loro senza rimirare la sua indegnità. Ricevette l’abito il 5 gennaio 1653 dalle mani del cardinal Francesco Barberini, dopo essersi preparata con insolito spirito e fervore. La mattina della vestizione era raggiante, poiché credeva di sigillare il suo Santo Sposalizio con Cristo. Passò l’anno del noviziato crescendo di virtù in virtù ed emise i voti nelle mani della priora nella festa dell’Epifania del 1654; nella medesima cerimonia fu velata dalle mani del suddetto cardinale. Nell’esercizio della vita religiosa prediligeva il silenzio e la ritiratezza, in cui appagare la sua sete di orazione e di unione con Dio. La professione la metteva a pieno servizio della comunità, che ella adempì con grande perfezione in ogni officio a cui fu chiamata. Forse, tra gli altri, ebbe una preferenza per l’ufficio di infermiera, perché poteva recare il suo conforto alle consorelle ammalate, in cui vedeva per fede le membra sofferenti di Cristo. Nella loro assistenza non si risparmiava minimamente, “né faceva conto alcuno di se stessa, né d sua fatica”; e “per il suo buon tratto tutte l’amavano e la desideravano”. Ebbe un presentimento della sua prossima fine: si preparò all’incontro con Dio mediante la confessione generale e l’esercizio più intenso dell’unione a lui. Il primo agosto si ammalò gravemente e, per dieci giorni, sopportò con pazienza ammirevole i medicamenti soliti ad applicarsi, a quel tempo per debellare “la febbre maligna”. Munita dei sacramenti, morì consolando le consorelle e chiedendo preghiere per il suo riposo eterno. Fu sepolta nella cappella provvisoria in attesa che fosse completato il cimitero del monastero dove, in seguito, il suo corpo fu trasportato” (1). 1) A.P.G. Post. IV, 40, Vitae Servorum Dei Carmelitarum…, raccolte dal P. Serafino Potenza, ff. 4 rv.

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