Luca 15, 11-32: La parabola del “figlio prodigo”
Il celebre brano di Lc 15,11-32, conosciutissimo e commentatissimo, nella Bibbia di Gerusalemme prende il sottotitolo esplicativo del “figlio perduto e del figlio fedele: il figlio prodigo”; tuttavia lo si potrebbe mutare o quantomeno, “accostare,” da un altro titolo tanto chiarificatore quanto qualificativo di uno dei personaggi ivi descritti, quello del padre: “il padre prodigo”.
Il figlio minore si rivolge al padre, dicendogli: “PADRE!”. È un vocativo che indica tenerezza, bontà; e prosegue: “Dammi la parte del patrimonio che mi spetta”; qui il padre viene paragonato ad… una “banca”: il rapporto figlio-padre è un rapporto troppo “convenientistico”, basato sull’ “utile”. Il padre, tuttavia, non recrimina, non fa storie, subito si arrende e qui viene in mente Dio-Padre… che ci lascia liberi di decidere se scegliere la via del bene o quella del male.
«Dopo non molti giorni… il figlio minore raccolse le sue cose e partì per un paese lontano». Ci si domanda perché questo figlio minore parte. Lascia il Padre –e che Padre!- lascia la sua casa –dove c’erano molti salariati-, cibo a sazietà –dice il brano-, casa dove c’era ricchezza di certo. Lascia il fratello maggiore… si era stancato? Capita che tra fratelli non ci si “sopporta” per una specie di “rivalità affettiva” (tu sei il prediletto di papà; tu invece di mamma e così via). Il fratello maggiore lo angariava? Gli rinfacciava qualcosa tacitamente o palesemente? Il testo non ci dice nulla, come non ci dice se in questa casa ci fosse la mamma. Era morta? Era dietro le quinte? Non si sa. Qui le applicazioni possono essere svariate e tutte plausibili.
…”il figlio minore partì per un paese lontano…” raccolse tutte le sue sostanze e se né andò lontano…”e là le sperperò” : è questo il tempo dell’euforia – che dura poco! -, il tempo delle “esperienze” illusorie, subito seguito dal tempo del bisogno, della sofferenza, dell’imparare a cavarsela da soli guadagnando il proprio pane con il sudore della propria fronte: “E si mise a servizio presso uno degli abitanti della regione”.
“Questi, lo mandò a pascolare i porci”. Come ogni passo, ogni versetto, ogni “iota” della Scrittura (direbbe Gesù), anche qui vi è un insegnamento preciso, particolare: dobbiamo pensare che, per gli ebrei, questi animali erano, e sono considerati, impuri. Perciò, per questo figlio “prodigo” nel peccato, l’umiliazione subita è talmente grande da ridurlo alla stregua di un animale: il peccato degrada, snerva l’uomo rendendolo schiavo delle proprie passioni.
“Allora rientrò in se stesso…”: “rientrò in se stesso” perché, fino a quel momento, il figlio minore era vissuto “fuori dal dominio di se stesso”; occorreva l’esperienza del dolore, dell’umiliazione, per aprirgli il cuore e la mente alla realtà misera della sua esistenza.
“Allora rientrò in se stesso”… vivere fuori di sé è normale, è vivere delle “opere della carne: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze e cose del genere…” (Gal 5, 19-21).
Il figlio minore sperimenta questa “libertà” dalla casa paterna, dall’influsso familiare e vive spensieratamente, da “dissoluto”, dice il testo.
“Allora rientrò in se stesso”…“Quanti salariati in casa di mio padre hanno il pane in abbondanza! E io, qui, muoio di fame. Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre…”. Interessante notare la successione dei due verbi qui usati: questo “levarsi” che richiama ed eleva la mente al concetto della “risurrezione”, e quell’ “andare” che esprime una presa decisiva di coscienza, quasi a dire: “Mi rendo conto di aver toccato il fondo…non posso rimanere così, devo fare qualcosa…”. Tuttavia, se qui si tratta dell’azione più grande del cuore umano – quella del pentimento – questo ravvedimento non è ancora sincero, retto fino in fondo: è più un rammarico dell’intelletto che una conversione del cuore: si rivela ancora l’agire proprio del figlio minore, quasi dicesse: “E adesso, che faccio? Certo non è conveniente che io rimanga qui dove sono, è sempre meglio ritornare a casa…almeno lì, succeda quel che succeda, starò sempre meglio di come sto ora: andrò da mio padre…”.
“Il padre lo vide…”: se si riuscisse a dipingere la scena col pennello dell’immaginazione, potremmo vedere ben delineato questo “vecchio” padre (la canizie è segno di saggezza e bontà) che, ogni giorno, guarda da lontano e attende un ritorno lungamente desiderato; il padre, che come ogni padre conosce il figlio, lo aspetta e intuisce le sue intenzioni; gli va incontro: “Lo vide e si commosse”. Dio Padre ha un Cuore e un Grembo materno. E’ un Padre-Madre: è Amore infinito. In questa parabola del “padre prodigo”, si descrive la prodigalità, la liberalità, la munificenza della tenerezza amorevole del padre che non ha timore di perdere qualcosa, di “umiliarsi” anche davanti all’errore evidente di suo figlio, perché, ciò che interessa al padre, non è tanto l’aver ragione, ma il riavere suo figlio con sé: il padre si umilia al figlio, è lui che, per primo, gli va incontro, gli si “slancia” addosso con un’effusione di amore e se lo stringe al seno…Ma questa, non è forse la nostra medesima esperienza con il Signore? Ci convertiamo al Padre quando riconosciamo, ci avvediamo, che è Lui che si umilia a noi, che ci ama, ci aspetta, ci abbraccia, ci bacia, ci fa rivestire dell’abito più bello, dei calzari ai piedi e dell’anello al dito: Dio ci fa risorgere con il Suo Amore.
Passiamo, brevemente, a commentare anche l’altro personaggio-chiave della parabola: quello del “figlio maggiore”. “Il figlio maggiore era nei campi”. Faceva il suo dovere, andava a lavorare, controllava la proprietà della famiglia –sua a dire il vero perché il fratello minore si era già presa la sua parte-…
Apparentemente sembra la “vittima” della situazione: non si era mai allontanato da casa, non aveva mai disobbedito a uno dei comandi del Padre, non aveva mai preso un capretto per far festa con gli amici…e alla fine viene pure “rimproverato” per la durezza del suo cuore.
“Il figlio maggiore era nei campi”: entra in scena quest’altro figlio, il maggiore, dall’animo apparentemente giusto, ma interiormente calcolatore e dal cuore indurito. “Il padre”, si legge più avanti, “uscì a pregarlo”: anche qui è centrale la figura di questo padre amorevole, buono, comprensivo: il padre, nuovamente, agisce per primo e disinteressatamente…esce a pregarlo, s’incomoda. Questo figlio maggiore è rimasto in casa con lui, ma come un mercenario, come un servo; infatti, rinfaccia al padre quelle cose che, secondo lui, non gli erano state date: “Tu non mi hai dato neanche un capretto…in tutti questi anni che ti ho servito”! Per lui il padre non è mai stato un “padre” ma un padrone: è vissuto in casa sua da estraneo e non si è mai accorto di avere, invece, un padre così buono e amorevole. “Ora che questo tuo figlio ha sperperato i tuoi beni con le prostitute”: questo fratello maggiore è spudorato nei confronti del fratello minore. E mentre il narratore – Gesù – all’inizio non ha detto come il fratello giovane aveva dissipato le ricchezze paterne…lui lo infama e lo umilia.
“Figlio”, gli disse suo padre, “tu sei sempre con me, ma questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita”: il padre spiega al figlio maggiore il motivo profondo per cui si rallegra, perché il fratello minore ha ritrovato la via del bene ed è passato da una condizione di peccato ad una di redenzione. Ma questa spiegazione è altamente significativa anche per noi, perché questa Voce paterna risuona così alla nostra coscienza: “Tu sei davvero figlio se lui è tuo fratello”, ossia, la figliolanza spirituale conduce e passa necessariamente per la fratellanza concreta ed universale.
Resta in sospeso, alla fine della parabola, la decisione del figlio maggiore. Apparentemente quest’altro figlio era il “giusto” di casa, ma in realtà non si era mai accorto delle ricchezze che possedeva. Ogni volta che leggiamo un passo scritturistico, dobbiamo tenere a mente questa “regolina” d’oro: “Testa sul testo, nel contesto!”….Cosa significa?!? Bisogna, appunto, “inquadrare” il brano nel contesto storico e biblico-esegetico in cui viene a collocarsi. Ricordiamo che questa nota parabola lucana è una delle cosiddette “parabole della misericordia”, affiancata da quelle della pecorella smarrita, della dracma perduta, ecc… Qui Gesù vuole dare un insegnamento, è circondato da un folto gruppo di persone poco “raccomandabili”: esattori delle imposte (ladri), prostitute, gente senza scrupoli, ecc… ma vi sono anche i farisei, i dottori della legge che Lo ascoltano: Gesù, che rivela il Volto del Padre, vuole dare un insegnamento a tutti, perché tutti ama indistintamente, cioè di tutti vuole il bene. Questi sadducei, farisei, dottori della legge che continuamente cercano pretesti contro di Lui…sono “condensati” nella figura del “fratello maggiore”. Il problema di quest’altro figlio, consiste nell’incapacità di cogliere e, dunque, di accogliere ciò che in realtà già aveva, nell’incapacità di valorizzarlo, di “spolverarlo” da tutte le cattive abitudini e renderlo vivo dentro di sé, di accoglierlo con cuore grato. È come quando ci si accorge, si scopre di avere Dio in noi stessi, di essere davvero quel “tempio di Dio” decantato dalla Scrittura: Egli è sempre qui, nel profondo del nostro cuore, ma non ce ne accorgiamo o facciamo finta di niente; Gli siamo vicini, ma non Lo conosciamo perché non Lo amiamo abbastanza per quanto siamo concentrati solo su noi stessi; pretendiamo da Lui tutto e non ci accorgiamo che questo dev’essere condiviso con gli altri. E’ dura per noi, per questo “figlio maggiore”, accettare il fratello pervertito che è ritornato e si e’ preso tutti gli onori: in realtà è duro per lui/noi cambiare la logica dei suoi ragionamenti umani, delle sue abitudini: la sua morale era quella soggettivistica, individualistica ed egoistica del “fai da te”, nettamente opposta a quella munifica, “prodiga” del Padre che vuole il bene di entrambi.
Ma chi sono questi due figli? Il figlio minore siamo noi, quando, stanchi della nostra famiglia, stanchi dell’affetto paterno e fraterno, stanchi dell’agiatezza, stanchi di tutto ciò che è calore della famiglia…decidiamo di partire e fare esperienza da soli. Si parte, si va lontano e là si “vive da dissoluti”, senza regole, né morale, né etica. E si cade nella carne e nello spirito. Si inizia con la fornicazione –vizio più comune!-, fisica o mentale che sia, con l’impurità, con la ricerca di maghi, visionieri e incantatori, si inseguono i sogni, le illusioni, si vive “fuori” con invidia, gelosia, passione…tutti frutti del libertinaggio fisico e mentale e l’uomo interiore si sgretola…ma “rientra in sé”.
Il figlio maggiore siamo anche noi, quando superbi e orgogliosi ostentiamo la nostra fedeltà agli obblighi imposti, familiari o religiosi che siano, al nostro dovere, alla nostra appartenenza alla “casa” –che non si lascia mai…- ma è lo stesso l’uomo carnale, che vive nel dissenso –con il Padre e le sue scelte, con il fratello minore e le sue scelte-, che vive con invidia e gelosia le sue sostanze, che vive con divisione tra il cuore e le ricchezze, che preferisce “un capretto per far festa con gli amici” piuttosto che far festa per il ritorno del fratello, che recrimina nei confronti del fratello e infama la sua vita –già degradata- anziché scusarlo.
I due figli in noi si alternano, tra lo spirito e la carne, tra le opere di bene e le opere di male. E’ difficile invece trovare in noi il Padre, che sempre ama, sempre attende, sempre fa festa, sempre ricopre, sempre divide e dona il suo amore.
Siamo il figlio minore. Siamo il figlio maggiore. Siamo chiamati a diventare il Padre. Ad essere, come il Padre, donne e uomini dell’attesa fiduciosa, della speranza, dell’accoglienza, del perdono. Come il Padre organizziamo la festa quando il figlio minore torna ed esortiamo il maggiore a parteciparvi. Come il Padre, siamo chiamati a dare ragione della speranza che è in noi.
La misericordia del Padre è grande, infinitamente traboccante, superiore, diversa…al di là del modo di pensare dei due figli. E noi, che a volte ci sentiamo a “posto” come il figlio maggiore –che puntualmente faceva il suo dovere, stava in casa, non “pretendeva niente” ma che poi tutto calcolava ed esigeva puntualmente – siamo ben lontani anche dal figlio minore che, pur nel suo profondo peccato e orrore è risalito, è rientrato in sé e ha capito che in casa aveva un “padre”, aveva questo “pozzo” di amore e di sconfinata tenerezza che lo aspettava da sempre, che lo amava senza riserve per farlo partecipare alla vera felicità.
Questa è l’esperienza che ci fa fare il Signore… per capire che nonostante tutto, noi abbiamo un Padre, abbiamo una “Madre” che ci aspetta, che aspetta il nostro ritorno giorno dopo giorno e ci stringe a Sé rivestendoci dell’abito più bello, ci fa sentire amati, perdonati, risuscitati a vita nuova. Egli vuole da noi la conversione del cuore per poterci amare in modo unico e singolare e condurci verso quella felicità che appartiene a Lui, che è propria di Lui…e si sperimenta nell’intimo del proprio cuore “convertito e nuovo”.