Il beato Angelo Paoli nacque il 1° settembre 1642 ad Argigliano, frazione di Casola in Lunigiana, diocesi di Luni-Sarzana (oggi Massa Carrara-Pontremoli), allora appartenente al Granducato di Toscana, rappresentato da un capitano residente nella vicina Fivizzano.
Il bambino, battezzato col nome di Francesco, era il primogenito di Angiolo e Santa, i quali ebbero poi altri sei figli, tre maschi e tre femmine; di loro si conoscono i nomi di Tommaso, che seguirà il fratello maggiore nel Carmelo, e quelli delle sorelle: Lucia, Jacopa e Giovanna. La famiglia era modesta, benché non indigente, e il padre, Angiolo, non si tirava indietro di fronte alle necessità altrui, talvolta rimettendoci del suo.
Francesco ricevette in famiglia una solida educazione cristiana, i cui valori, successivamente nutriti con gli studi teologici e la dimestichezza con la spiritualità carmelitana, gli consentirono di salire le vette della santità con la stessa disposizione con la quale da ragazzo si avventurava per i monti della sua terra in cerca di luoghi solitari dove meglio poteva concentrarsi per dialogare con il Signore.
Ricevette, insieme al fratello Tommaso, la prima istruzione scolastica dal vicario parrocchiale di Minucciano, non facile da raggiungere nonostante la relativa vicinanza. Il resto del tempo trascorreva alternandosi tra piccoli lavori, con cui collaborava all’economia familiare, e momenti di solitudine e preghiera già allora alimentati da una forte devozione alla croce, con la quale amava segnare i luoghi elevati o maggiormente in vista. Amava la pratica religiosa e non si faceva scrupoli di fronte agli scherni dei coetanei, che invece esortava al bene; già da ragazzo era pronto e attento, quando poteva fare qualche gesto di carità. Francesco proseguì in questo senso anche dopo la morte della mamma, il 9 ottobre 1654, quando aumentò il carico degli impegni familiari.
Nel frattempo maturava la propria scelta di vita. Verso i diciotto anni chiese di poter essere ammesso nel clero. Alle Quattro Tempora di Quaresima del 1660 (fine marzo – primi di aprile), ricevette la tonsura e gli ordini minori dell’ostiariato e del lettorato. Ma Francesco non si sentiva chiamato a diventare presbitero diocesano: più forte in lui era il richiamo verso la vita regolare. La devozione verso la Madonna e l’uso dello scapolare del Carmine orientarono la scelta verso i Carmelitani, presenti dal 1568 a Cerignano, frazione di Fivizzano. Anche il fratello Tommaso ne condivise la scelta.
La comunità religiosa di Cerignano-Fivizzano ammise i due fratelli il 27 novembre 1660. Qualche giorno dopo i due giovani partivano, accompagnati dal padre, per il convento di Siena, dove avrebbero compiuto l’anno di noviziato, che iniziò, con la vestizione dell’abito, il successivo 1° novembre. A Francesco fu cambiato il nome in quello di Angelo, in onore del santo carmelitano di Licata. Trascorso l’anno d’istruzione e di prova, fra’ Angelo emise la professione solenne il 18 dicembre 1661.
Si trasferì a quel punto a Pisa, dove studiò filosofia nel locale studium generale. In quel periodo, il 29 dicembre 1664, fra’ Angelo ricevette gli altri due ordini minori, l’esorcistato e l’accolitato, che gli furono conferiti dall’arcivescovo Francesco d’Elci. L’anno successivo, il 20 dicembre 1665, riceveva l’ordine del suddiaconato e dopo un anno ancora, il 19 dicembre 1666 dal diaconato. Concluso il corso filosofico e dichiarato cursoratus, fra’ Angelo sostenne le prescritte dispute e lezioni, a seguito delle quali fu inviato a Firenze, dove studiò teologia sotto la guida del p. maestro Juan de Ventaja.
Non si conosce con esattezza la data dell’ordinazione presbiterale, ma il 7 gennaio 1667, p. Angelo celebrava la prima messa cantata per la festa di s. Andrea Corsini. Sarebbe restato nella comunità di Firenze per sette anni, fino al 1674, proseguendo gli studi teologici, fino a conseguire il grado di lettore, e in servizi nascosti e modesti alla comunità, tra cui la confezione di abiti per i confratelli. In quel periodo ricevette la visita del fratello Tommaso, che tornava da Roma dove aveva conseguito la laurea dottorale; il nostro p. Angelo, invece, nella sua semplicità non volle proseguire gli studi sentendosi chiamato ad impegnarsi per il prossimo.
In quel periodo il Servo di Dio fu colpito da una forma di deperimento organico, non meglio specificata dalle fonti, che indussero medici e superiori a consigliare un allontanamento temporaneo dal convento. Fu così che Angelo, accompagnato da Tommaso, tornò per un periodo ad Argigliano, dove avvenne un episodio emblematico della fisionomia spirituale del Servo di Dio. In preparazione alla festa dell’Assunta, la famiglia Paoli, come le altre del paese, stava preparando cibi e provviste per accogliere gli invitati che sarebbero giunti per l’occasione; p. Angelo non ebbe scrupolo a prendere quel ben di Dio e distribuirlo ai poveri, incurante del rimprovero del fratello, preoccupato di quanto sarebbe mancato il giorno appresso. Il ritorno a casa offrì al Servo di Dio l’occasione di un ritorno ai suoi amati monti, sui quali si ritirò per alcuni giorni, suscitando l’ansia dei familiari, che decisero d’inviarlo da uno zio materno a Pistoia. Più forte di quello della salute, però, era il richiamo del servizio ai poveri: la città offriva numerose occasioni al carmelitano, che non ne perdeva una, spingendosi a chiedere l’elemosina per poter alleviare le necessità di chi aveva più bisogno. Non si conosce l’esito della malattia, né se si sia ripreso, tuttavia da allora p. Angelo iniziò un periodo di trasferimenti da un convento all’altro, fino al definitivo trasferimento a Roma, che visse con serenità e disponibilità, senza apparenti problemi di salute.
Dopo otto mesi di assenza dal convento, p. Angelo fu richiamato a Firenze dove gli venne affidato il compito di maestro dei novizi, che svolse con impegno e apprezzamento per diciotto mesi, finché il 7 dicembre 1676 fu trasferito a Corniola, presso Empoli, dove fu parroco per meno di un anno, fino all’ottobre 1677, quando venne nuovamente trasferito a Siena, dove restò per circa due anni. Nel 1680 fu inviato a Montecatini e due anni dopo il capitolo provinciale lo incaricò d’insegnare la grammatica ai giovani chierici. Dopo un breve soggiorno a Pisa, p. Angelo, nel 1682, fu inviato al convento di Fivizzano, dove gli furono affidati gli uffici di sacrista e organista: avendo chiesto e ottenuto dal Priore provinciale una dilazione di tempo, vi giunse nell’agosto il 22 agosto 1683, dopo una breve visita all’anziano padre nella nativa Argigliano.
Eccetto che a Pisa, dove restò solo per pochi mesi, in tutti i luoghi in cui visse non dimenticò mai la propria chiamata a servire i poveri e gli ammalati. A Siena e poi a Montecatini improntò, col permesso dei superiori, una specie di cucina da campo, con cui sfamare i miseri: fu a Siena che iniziarono a chiamarlo “Padre Carità”. Neppure i rimproveri e gli ostacoli posti dalla logica di superiori e confratelli potevano fermarlo, soprattutto dal togliersi la camicia o le scarpe per donarle a un povero. Si ricordano anche molti episodi d’intervento della Provvidenza e di sostegno miracoloso alla generosa azione del frate.
Così pure devotamente e con scrupolosa attenzione esercitava gli uffici affidatigli, particolarmente quello di sacrista, che gli consentiva di onorare il Signore custodendo, tenendo in ordine e preparando con cura tutto l’occorrente per le celebrazioni, come anche il compito di organista, che per il Venerabile Servo di Dio costituiva un modo diverso di lodare il Signore, tanto da aver escogitato il modo di suonare in ginocchio.
La vita del p. Angelo si stava avvicinando alla svolta: il Priore Generale, Paolo di Sant’Ignazio lo chiamava a Roma, dove intendeva affidargli la formazione dei novizi nel convento di San Martino ai Monti. Il Maestro Paolo di Sant’Ignazio apparteneva alla Provincia riformata di Piemonte e intendeva estendere la riforma anche al convento romano, perciò, il 4 gennaio 1687, scrisse al priore di Fivizzano, p. Lorenzo Galletti, chiedendogli di comunicare la decisione al p. Angelo. Il priore, però, era riluttante a privare la comunità di un frate obbediente e servizievole come il Servo di Dio e non gli comunicò nulla; rispose invece al Priore Generale chiedendo di soprassedere alla richiesta. Per ben tre volte il Generale dovette reiterare la richiesta, fino a coinvolgere il vescovo di Luni-Sarzana. Il p. Galletti finalmente, il 12 marzo 1687, comunicò pubblicamente in refettorio la lettera d’obbedienza al p. Angelo, che la accolse con venerazione e non pose indugi nell’attuarla. Passò per l’ultima volta da Argigliano, dove poté salutare il babbo dal quale ricevette l’ultima benedizione; non si sarebbero più incontrati, Angiolo Paoli, padre del Servo di Dio, infatti sarebbe morto il 25 aprile 1699. P. Angelo proseguì il viaggio passando da Siena, dove viveva il fratello p. Tommaso, e per la via Cassia giunse a Roma. Un testimone al Processo informativo di Roma afferma che, entrando dalla Porta del Popolo, il Servo di Dio incontrò un lebbroso che abbracciò e a cui ripulì le piaghe: un anticipo di quanto avrebbe fatto per i poveri nei successivi trent’anni.
Il Servo di Dio svolse per tre anni l’ufficio di maestro dei novizi, ma da subito la sua attenzione fu per gli ammalati del vicino ospedale di S. Giovanni e per i miserabili che sempre numerosi si accalcavano dov’era possibile ottenere qualche aiuto, soprattutto in momenti di particolare difficoltà come in occasione di inondazioni del Tevere (1701 e 1702) o di terremoti (14 gennaio e 2 febbraio 1703, ma le scosse proseguirono fino al 1706) e delle carestie dovute anche all’inclemenza degli inverni. Questa sarebbe diventata la sua attività prevalente, accanto a quelle che di volta in volta gli vennero affidate, anche a S. Martino ai Monti, infatti, il p. Angelo fu sacrista e organista, oltre che clavario (economo).
Per vari anni, dal 1689, insieme al p. Angelo Pennazza, fu direttore spirituale e confessore del Conservatorio della Beatissima Vergine, detto popolarmente “delle Viperesche”, fondato presso l’arco di Gallieno e la Chiesa di S. Vito (oggi in via di S. Alfonso) dalla nobile romana Livia Vipereschi per l’educazione delle fanciulle. P. Angelo fu assai cercato come direttore d’anime e consigliere spirituale da persone semplici come da esponenti dell’aristocrazia romana e del clero. Ma non ascoltava nessuno, o non si recava da nessuno, prima di aver concluso il proprio servizio ai poveri. Tra le persone che lo tenevano in grande stima ci furono anche i Pontefici Innocenzo XII e Clemente XI, che ripetutamente gli offrirono la porpora, sempre rifiutata per umiltà e perché gli avrebbe impedito di proseguire il servizio dei poveri. Capace di relazioni aperte con tutti, sapeva stare a proprio agio con persone d’ogni ceto e condizione.
Molte persone dirette dal Servo di Dio furono coinvolte anche nella sua attività caritatevole. Egli infatti non si limitava a dispensare l’aiuto e il consiglio spirituale richiesto, ma animava chiunque a collaborare in ogni modo possibile al servizio di chi aveva bisogno. Tra costoro sono da ricordare il fedele braccio destro Massimo Maestri, falegname del convento raffigurato in alcune immagini divenute poi classiche, Mons. Giuseppe D’Aste, decano della Camera apostolica, il sacerdote don Giovanni Santinelli, beneficiario di S. Giovanni in Laterano, il canonico di S. Maria Maggiore Fabrizio Castellini, l’oratoriano p. Scotti, il canonico Napolione e ancora San Giuseppe Maria Tomasi, cardinale titolare di S. Martino ai Monti, e vari nobili romani, tra cui il marchese Crescenzi e il marchese Francesco Maria Piccaluca, che, riluttante all’inizio, sarebbe diventato uno dei più assidui nel servizio agli ammalati.
Così, “Frate Carità” o “Padre dei poveri” – come usavano chiamarlo – organizzò presso il convento di S. Martino ai Monti la distribuzione quotidiana di pane e minestra, ma non mancavano neppure vino, uova e frutta, che si moltiplicano provvidenzialmente nelle sue mani. Una volta ben 284 poveri si presentarono alla porta del convento e il Servo di Dio aveva solo 54 pani e poca minestra: con meraviglia di tutti, nessuno andò via senza aver ricevuto la sua parte con abbondanza. Un’altra volta, le due pagnotte, che aveva preso con sé uscendo di convento, si moltiplicarono per tanti miseri incontrati per strada. Il Venerabile Servo di Dio amava ripetere che poteva rifornirsi “al forno della Provvidenza”.
Per l’assistenza agli ammalati non risparmiò energie. Oltre a portar loro l’assistenza spirituale, specie nel caso dei moribondi, per cui veniva chiamato ad ogni ora del giorno e della notte anche da membri della nobiltà, si adoperò per alleviarne lo stato, incitando molte persone a dare aiuto ai ricoverati, nutrendoli, lavandoli e cambiando loro la biancheria. Nelle visite all’ospedale di S. Giovanni non mancava di portare con sé dolci e confetti, ma anche erbe odorose, con cui alleviare i cattivi odori delle corsie. Talvolta assoldava un’orchestrina, perché andasse nelle corsie dell’ospedale a sollevare il morale dei ricoverati, in una sorta di anticipata musicoterapia, oppure, specialmente per il carnevale, organizzava nel cortile dell’ospedale uno spettacolino buffo con ragazzi mascherati. La salute spirituale era per lui connessa con quella fisica e questa anche con quella psicologica. Si preoccupò anche della condizione precaria dei dimessi, i quali ancora convalescenti non avrebbero potuto tornare direttamente a casa senza ricadere nel male: per loro fondò un convalescenziario nella strada di S. Giovanni accanto alla basilica di S. Clemente, ottenendo un palazzo di proprietà di un’abbazia di cui era commendatario il potente cardinale Pietro Ottoboni. Anche i carcerati lo videro spesso tra loro a portare conforto, sollievo e qualche dono, insieme al rispettoso invito al ravvedimento e al recupero della dignità perduta.
Un aspetto interessante del profilo spirituale del Venerabile p. Angelo è il suo fine senso della giustizia, per cui soleva sempre pagare il lavoro degli operai e le offerte che gli venivano fatte, a meno che non venissero da persone benestanti. D’altra parte, come ricorda il collaboratore di tanti anni, Massimo Maestri, la carità va fatta in segreto e nascostamente, ma sempre con giustizia.
Anche a Roma il Servo di Dio ebbe modo di mostrare la propria devozione alla croce e, come aveva fatto da giovane sui monti della sua Lunigiana, fece innalzare tre croci prima al Monte Testaccio e poi nel Colosseo: segni della vittoria redentrice del Cristo che, testimoniata dal sangue degli antichi martiri, doveva ora fiorire in una vita di fede, speranza e ardente carità per tutta la città e per il mondo intero. Il Venerabile p. Angelo dedicava la notte alla preghiera e alla contemplazione, ritirandosi spesso in uno dei balconi della navata della basilica e trascorrendovi parecchie ore in adorazione del Sacramento. Così pure non si faceva toccare dagli ostacoli che in vario modo si frapponevano tra la volontà di servire il Signore nei poveri e la concreta realizzazione della sua chiamata: rimproveri di qualche superiore e confratello, disturbati dal fastidioso andirivieni di miserabili alla porta del convento, intemperanze e insulti degli stessi poveri, difficoltà materiali e necessità improvvise non sempre facili da risolvere venivano da lui affrontate con serenità e umiltà.
Morì a 78 anni, il 20 gennaio 1720 e, dopo un solenne funerale con larghissima partecipazione popolare, fu sepolto nella basilica di S. Martino ai Monti. Inizialmente la cassa fu interrata in chiesa e coperta da una lastra marmorea con la scritta: Pater Angelus Paoli, Pater Pauerum. Si dice che l’appellativo sia stato voluto dallo stesso Papa Clemente XI. Al termine dei Processi, fu fatta la ricognizione canonica delle spoglie mortali del Venerabile, che furono poi traslate in un sepolcro posto alla base della parete sinistra della basilica, a tutt’ora visitato e onorato. Così pure vivissimi sono il ricordo e la venerazione di cui gode il Venerabile Servo di Dio nel paese natale e nella Lunigiana.
I processi canonici per la beatificazione e canonizzazione si svolsero regolarmente con esito positivo. Nel 1723 iniziarono i Processi informativi diocesani di Firenze, Pescia e Roma; il Processo apostolico si svolse a Roma dal 1740 al 1753 e nel 1781 il Papa Pio VII riconobbe l’eroicità delle virtù attribuendogli il titolo di Venerabile.
Il 3 luglio 2009, Benedetto XVI ha firmato il decreto sul miracolo, avvenuto nel 1927 in Garfagnana a favore della signora Egle Camozzi.
La solenne cerimonia di beatificazione è avvenuta il 25 aprile 2010, nella basilica di S. Giovanni in Laterano in Roma.
Angelo Paoli
Nato ad Argigliano, in Toscana nel 1642, Angelo Paoli, particolarmente dotato di spirito di carità, venne ammesso al Noviziato dei Carmelitani di Siena a 18 anni, dove pronunciò i voti e continuò gli studi, finchè sei anni più tardi fu ordinato sacerdote, prestando la sua opera presso il Carmelo di Pisa, poi Cupoli, Monte Catino e Fivizzano.
Aveva una speciale devozione per la passione di Cristo e provvide a far erigere molte croci sulle colline intorno a Fivizzano e successivamente, trasferitosi a Roma, fu sua l’idea di metterne una al centro del Colosseo, affinché il sacrificio della Crocefissione fosse sempre presente sotto gli occhi e nella mente di chi passava.
Nel 1687, infatti, venne trasferito a Roma, nel convento presso la Chiesa dei Santi Silvestro e Martino, dove rimase fino alla morte. Tutto il suo tempo lo dedicò alla cura dei poveri ammalati del vicino ospedale (era chiamato infatti “Padre dei poveri”) e all’ammaestramento dei novizi. Non sopportando la vista del Colosseo, luogo per lui imbevuto del sangue dei martiri, che era ormai ridotto ad un bivacco o usato per scorciatoia per i carri e di notte rifugio per gente di ogni specie, chiese insistentemente al Papa Clemente XI di poterlo sistemare. Il Pontefice, sia pur titubante, gli diede il permesso ed il frate, con l’aiuto di volontari, si mise personalmente al lavoro per chiudere gli archi con delle mura massicce e le porte con colonne attraversate da grossi ferri. Inoltre all’interno pose tre grosse croci di legno ed altre tre le pose a Testaccio, dopo aver composto – con frammenti e terraglie di epoca romana – un colle simile al Calvario. Papa Clemente XI, come il suo predecessore Innocenzo XII, gli offrì la porpora cardinalizia, proposta che egli rifiutò categoricamente perché “sarebbe stato di danno ai poveri che non avrei potuto più aiutare”.
Fra gli ammiratori di padre Angelo c’erano cardinali, alti prelati, nobildonne ed egli utilizzò queste amicizie altolocate a fin di bene, per realizzare un suo progetto. Nelle periodiche visite negli ospedali aveva notato che i malati, specialmente i più poveri, uscendo in convalescenza, s’aggiravano per la città ancora deboli e non del tutto guariti. E come c’era da aspettarsi, ricadevano spesso ammalati.
Padre Angelo li aiutava collocandoli presso alcune famiglie; ma quando gli ammalati furono molti allora pensò di costruire uno ospizio per i convalescenti, al fine di ospitarli fino a quando non si fossero completamente ristabiliti. Così, fra molte difficoltà e l’incredulità di tanti, sorse nello “stradone% tra il Colosseo e la Basilica di San Giovanni, un ospizio, aperto ad ammalati e poveri; ogni volta che arrivava un nuovo ospite, Padre Angelo suonava un piccolo organo posto nella cappellina dell’edificio, per festeggiare il nuovo arrivato.
La provvidenza non faceva mai mancare i benefattori e tanta era l’abbondanza di pane e di vino che arrivavano all’ospizio, che Padre Angelo li distribuiva a i poveri che si radunavano alle porte del convento di San Martino ai Monti.
Il convalescenziario, oltre ad essere una fondazione assistenziale, aveva una forte connotazione sociale: lì i malati in attesa di guarire completamente, imparavano un mestiere per potersi inserire nella società e non essere di peso a nessuno.
Fra Angelo non si fermava mai e il suo ‘tempo libero’ lo utilizzava confezionando scapolari della Madonna del Carmine che poi distribuiva e a chi lo esortava a riposarsi, rispondeva con delicatezza: “Il carmelitano gusta il riposo di San Giovanni, quello che si gusta sul petto di Gesù, mediante l’orazione!”.
A proposito dei poveri diceva: “Chi strapazza i poveri, strapazza Dio, perché nei poveri s’ha da riconoscere Iddio benedetto.”
Morì il 17 gennaio 1720 e nel 1781 papa Pio VI riconobbe le sue virtù eroiche, anche per via di molti miracoli che gli si attribuiscono, sia in vita che dopo la morte, il Capitolo Generale dell’Ordine tenutosi a Roma nel 1908, incluse il suo nome tra i Servi di Dio carmelitani ed appoggiò la sua causa di beatificazione.
Il Ven. Angelo Paoli è sepolto nella Basilica dei Santi Silvestro e Martino ai Monti in Roma, sotto la lapide su cui è scritto: “P. Angelo Paoli, padre dei poveri”
Giovanni Paolo II nel 1999, inviò un messaggio al Priore di S. Martino ai Monti (Roma), in occasione del 7° centenario dell’affidamento della Basilica ai Carmelitani. Tra le altre cose il Papa scrisse: “Come non far memoria di quell’umile frate, il Ven. Angelo Paoli, “Padre dei Poveri” e “Apostolo di Roma,” che possiamo definire il fondatore ante litteram della Caritas nel rione Monti? Egli, per primo, collocò la croce nel Colosseo, dandovi inizio al pio esercizio della Via Crucis.”